Tematiche Cliniche

Tematiche di Psicoterapia

ANSIA
PROBLEMI DELLA COPPIA
ATTACCHI DI PANICO
PAURA E FOBIE
AUTOSTIMA
STRESS
DISTURBI DELL’UMORE: DEPRESSIONE
DISTURBI DI PERSONALITÀ
DIFFICOLTÀ RELAZIONALI ED AFFETTIVE
LUTTO
OSSESSIONI
DIFFICOLTÀ SCOLASTICHE

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Ansia

Sigmund Freud definiva l’ansia come un affetto dell’IO.
L’ansia è un segnale che vuole venire a contatto con la nostra consapevolezza, con la nostra coscienza, per comunicarci qualcosa che non sempre siamo in grado di decifrare spontaneamente.
Normalmente funziona da richiamo per la nostra attenzione, ci mette in uno stato di attivazione nelle situazioni di pericolo, acutizza i nostri sensi con la funzione naturale di aiutarci a migliorare le prestazioni e a realizzare obbiettivi a volte indispensabili per la vita stessa.
Entro una certa soglia l’ansia migliora le prestazioni, tanto che si parla di ansia positiva o ansia di adattamento. Quando però si supera una certa soglia ovvero il meccanismo di risposta di adattamento continua a persistere anche in assenza di esposizione a situazioni ambientali ansiogene, si parla di un’ansia patologica, caratterizzata da uno stato permanente di tensione, che compromette le capacità operative e di giudizio, facendo precipitare le prestazioni del soggetto e accompagnandosi a sensazioni di disagio e sofferenza.
Ciò su cui ci si confronta e che assorbe sempre più l’impegno dell’uomo moderno è l’idea del successo legata al lavoro, al potere economico, al possesso di beni di consumo (casa, auto, abbigliamento, tecnologie domestiche, viaggi) che rischia con estrema facilità di essere estesa anche alla dimensione affettiva: famiglia, coppia, amici.
Entro quest’ottica i ritmi di vita crescono freneticamente, l’azione lascia poco spazio alla riflessione se non attraverso pensieri standardizzati del tipo: “devo impegnarmi di più”, “sto andando bene”, “sto andando male”, “non sono sufficientemente bravo”, “sono più in bravo del mio collega”.
Quando questi diventano gli unici pensieri attorno a cui gira la nostra esistenza, ecco arrivare l’ansia, sottoforma di insinuante paura di perdere tutto. L’ansia di non farcela, di rimanere indietro, di venire tagliati fuori. Le preoccupazioni diventano ossessioni, fantasmi, oggetti interni persecutori, che ci invadono anche nei momenti e nelle situazioni inaspettate, ostacolando le attività della vita quotidiana.
La comparsa dell’ansia allora rappresenta il segnale interiore che ci spinge a fermarci a riflettere sul senso delle nostre azioni, dalle quali siamo stati evidentemente sovrastati. Al di là del livello delle nostre prestazioni e dei traguardi di vita raggiunti, l’ansia svolge comunque la sua funzione determinante: mette in discussione le nostre azioni automatizzate e ci obbliga al confronto con noi stessi.
L’ansia nasce in conseguenza a un modello culturale sia individuale che sociale del non volersi mai fermare a riflettere, perché fermarsi è una perdita di tempo, un lusso che non possiamo concederci, perché chi si ferma è perduto, perché noi dovremmo essere sempre al posto giusto nel momento giusto e sapere sempre cosa fare. L’ansia ci ricorda che tutte queste sono solo fantasie, false strategie, agiti emozionali, che ci danno solo l’illusione di essere padroni della nostra vita ma a lungo andare ci consumano dentro e ci impediscono di vivere in una dimensione di equilibrio e benessere.
L’ansia serve a disintegrare tale illusione, a spazzarla via e a metterci in condizione di fare una pausa, tirare un lungo respiro e confrontarci con noi stessi entro un contesto riorganizzato.
Allora potremmo realizzare di condurre una vita che non sentiamo più nostra, che ci sembra sprecata; perché non siamo più in grado di recuperarne il senso, perché non ci sentiamo più utili; le nostre azioni potrebbero sembrare non più necessarie e senza una meta, senza uno scopo chiaro e condiviso dalla nostra psiche.
L’ansia è il segnale che ci stiamo sforzando di essere quello che in fondo non siamo.


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Problemi della coppia

Discutere tra partner è un avvenimento che si manifesta in ogni rapporto ed è una fase o un momento normale al pari della quiete e della rilassatezza. Alcune volte, però, può accadere che la fiducia ed a volte addirittura il rispetto del partner, vengano a mancare e le persone comincino a vivere i problemi di coppia in una maniera del tutto diversa, entrando nel circolo vizioso di un “amore infelice”.
Malgrado la difficile situazione, confessare al partner che si sta considerando l’idea di troncare il rapporto è uno dei momenti più duri e spesso, a forza di essere rimandato, la storia viene portata avanti, con indicibili sofferenze. Ma quali sono i motivi?
La paura di un futuro incerto o, ancora, quella di ferire i sentimenti del partner. D’altro canto a procrastinare la fine di un rapporto in cui sono presenti gravi problemi di coppia è anche la pigrizia individuale e l’abitudine ad avere un compagno: piuttosto che tornare single ci si accontenta dell’infelicità.
La terapia di coppia per le difficoltà coniugali: problemi di relazione, conflittualità, crisi della coppia, difficoltà nella sfera sessuale, ma anche nel caso di sintomi di tipo nevrotico o psicosomatico a carico di uno dei suoi membri.
Il lavoro del terapeuta è volto a riconoscere il significato del disagio o del sintomo contestualizzandolo alla luce della fase del ciclo vitale in cui esso si manifesta, delle regole di relazione della coppia, della storia personale dei suoi membri e di quella delle loro famiglie d’origine.
Mediante la relazione terapeutica, il terapeuta introduce gli elementi utili ad eliminare il disagio, a modificare le regole rigide e ripetitive che la coppia mette in atto, a riportare l’equilibrio precario in cui si trova la coppia ad uno più funzionale ad essa, facendo leva sulle risorse e sulle potenzialità dei partner.
In altri casi, quando le difficoltà manifestate sono riferite alla separazione la terapia di coppia aiuta ad affrontarla in modo meno traumatico.


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Attacchi di panico

La caratteristica essenziale di un attacco di panico è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore nell’arco di un periodo circoscritto.
La descrizione di un attacco di panico da parte di un paziente di ogni età, segue un modello costante: “Mi sento morire?mi manca l’aria?il cuore batte all’impazzata?ho paura di perdere il controllo?chi non l’ha provato non può capire quanto si soffra”. L’attacco di panico è fondamentalmente la paura di aver paura, la paura di morire, la paura di impazzire. Chi ne soffre, tende ad associare e a spiegare il panico con il luogo e le condizioni in cui questo si verifica: “ero in macchina, da allora ho paura di guidare.. Le condizioni possono essere molto diverse tra loro, anche se spesso l’attacco di panico si manifesta quando il paziente si sente costretto in una certa situazione come un mezzo di trasporto, la metropolitana, l’aereo, la macchina, o situazioni che sembrano costringere in una posizione senza via di uscita come il cinema, un ingorgo o, al contrario, in ambienti aperti in cui ci si sente persi e senza punti di riferimento. Per il paziente, l’associazione dell’attacco di panico e l’ambiente in cui questo si manifesta, diventa quasi un fatto magico. Infatti, evitando il luogo o la situazione in cui si è sentito male, egli cerca di controllare e di allontanare la paura della paura: ” se evito di guidare, non mi accadrà nulla, se non andrò al cinema non proverò ansia”.
La difesa fobica, inizialmente, sembra funzionare in quanto la persona vive l’illusione di poter controllare il problema evitando alcune isolate situazioni. Purtroppo l’iniziale sollievo ha breve durata, infatti, progressivamente aumentano le situazioni “pericolose” fino a limitare in maniera significativa la vita della persona che può, in alcuni casi, giungere a chiudersi in casa per evitare incontri sociali. Tutto diventa difficile, anche le azioni più semplici come recarsi al lavoro, incontrare gli amici, fare una passeggiata.
La paura di avere paura, restringe il raggio d’azione fino ai minimi termini e anche se la persona si costringe ad uscire, lavorare, affrontare un viaggio, tutto è vissuto con grande fatica ed angoscia rovinando il piacere di vivere la quotidianità. Apparentemente il paziente partecipa ad una riunione di lavoro o guarda un film ma in realtà è immerso in un proprio mondo parallelo che solo lui conosce in cui si ripete mentalmente una serie di “mantra negativi” del tipo: ” mi sento male, ho paura, mi scoppia il cuore, mi verrà un infarto, appena termina il film tornerò subito a casa, dov’è l’ospedale più vicino, chi mi può aiutare”. Se riesce a contenere l’ansia, la persona si sentirà male ma cercherà di nascondere la sua condizione, altrimenti l’angoscia lo prenderà alla gola e allora il mostro chiamato “paura di aver paura” lo costringerà a lasciare la sala cinematografica o la riunione di lavoro. Apparentemente la persona in preda a questo tipo di angoscia, partecipa alla situazione che sta vivendo ma in realtà è separato dall’esterno da un vetro trasparente su cui scivolano le emozioni e le sensazioni come gocce d’acqua su una superficie impermeabile. Egli non ascolta nulla, non gli arriva il calore o la vivacità dell’ambiente esterno, è solo, completamente isolato, anche se circondato da persone che provano affetto verso di lui ma non lo può percepire in quanto saturo dei suoi mantra negativi.
L’aspetto fisico della persona in preda a questa angoscia senza nome, è proprio quella di qualcuno che è attanagliato da potenti artigli alla gola e si sente morire, impazzire, andare in pezzi. E’ una sensazione tremenda ma anche innocua, è proprio questo il paradosso, non c’è nessun pericolo il paziente non morirà e non sarà aggredito da nessun mostro verde con gli artigli affilati. Il paradosso è che non ci sono pericoli per la salute o per l’incolumità della persona, eppure questa soffre atrocemente come mai nella sua vita.
La vittima dell’attacco di panico soffre dei propri pensieri e delle proprie fantasie, non è colpa del caldo o del freddo, della presenza o dell’assenza fisica degli altri. Soffre dei propri pensieri senza parole che egli stesso non conosce e che non sospetta neanche di pensare. Raccogliendo la storia di questi pazienti, è tipico come raccontino eventi, esperienze difficili e traumatiche della loro vita, con assoluta leggerezza come se non fossero fatti che li riguardino direttamente e spesso non riescono ad associare la situazione vissuta con l’attacco di panico. “Io ho sempre guidato, mi piace guidare, non avevo nessun pensiero”.
E’ proprio l’assenza del pensiero che scatena l’attacco, il poter riconoscere l’emozione disturbante, può diventare la chiave per liberare dalla paura del mostro verde. E’ la stessa situazione di un bambino che ha paura del buio disteso nel suo lettino e vede allungarsi le ombre dei mobili della sua stanza e dei suoi stessi giocattoli, egli ha molta paura ma è sufficiente la voce della mamma per tranquillizzarlo. La luce accanto al letto può illuminare i mostri nascosti nell’ombra che scompaiono per magia al contatto con la luce. Anche il mostro verde della paura di aver paura, può scomparire facendo luce, una luce che scalda e che consola e che accoglie il bambino spaventato che l’adulto nasconde dentro di se. E’ la pretesa dell’adulto di controllare tutto, l’illusione di essere “duro” e “forte”, ossia senza emozioni, ad allontanarlo dal dialogo interno con il bambino che è in lui e questo bambino rischia di sentirsi sempre più solo e disperato se non viene accolto ed ascoltato. Chi soffre di attacchi di panico, vive in un mondo fobico, pieno di divieti, obblighi, percorsi già fissati che vengono vissuti come immutabili. Ci si sente prigionieri di una realtà che non piace e non appartiene ma di cui non si può farne a meno perché altrimenti ci si sentirebbe persi e spaesati senza possibilità di ritrovarsi. Non si può fare a meno della protezione della prigione ma questa è intollerabile. I rapporti affettivi sono vissuti come invischianti ma assolutamente necessari per la sua stessa sopravvivenza. Un paradosso, che in quanto tale, è irrisolvibile. Il conflitto non viene esplicitato con le parole ma vissuto sul piano somatico con l’attacco di panico che come un nostro verde, prende alla gola. Per fare luce è necessario prima abbassare ogni luce. Fare buio, abituarsi al chiaroscuro, dare un nome alle ombre, avvicinare le paure dargli una forma, un oggetto, un luogo di incontro. Esplorare un paesaggio sconosciuto, un bosco buio dove ritrovare il bambino perduto con l’aiuto dello psicoterapeuta che mastica i pensieri, le emozioni e le sensazioni, traducendole ed offrendola all’adulto in preda al panico. Chi vive il panico, tende a percepire il mondo interno come concreto, il pensiero è semplice e lineare, ciò che si vede è l’unica realtà. Le parole rappresentano il ponte che può riavvicinare la persona alle sue emozioni e sensazioni.


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Paura e Fobie

La fobia è la paura marcata e persistente di un oggetto o di una situazione particolare, paura decisamente sproporzionata al pericolo che tale oggetto – o situazione – può comportare.
La persona riconosce che la paura è eccessiva, e tuttavia è disposta a fare notevoli sforzi pur di evitare ciò che la provoca.
I sintomi sono talmente intensi da causare disagio o interferire con le normali attività sociali e lavorative della persona.
La fobia è una paura marcata e persistente con caratteristiche peculiari:
* è sproporzionata rispetto al reale pericolo dell’oggetto o della situazione;
* non può essere controllata con spiegazioni razionali, dimostrazioni e ragionamenti;
* supera la capacità di controllo volontario che il soggetto è in grado di mettere in atto;
* produce l’evitamento sistematico della situazione-stimolo temuta;
* permane per un periodo prolungato di tempo senza risolversi o attenuarsi;
* comporta un certo grado di disadattamento per l’interessato;
* l’individuo riconosce che la paura è irragionevole e che non è dovuta ad effettiva pericolosità dell’oggetto, attività o situazione temuta.
La fobia è dunque una paura estrema, irrazionale e sproporzionata per qualcosa che non rappresenta una reale minaccia e con cui gli altri si confrontano senza particolari tormenti psicologici. Chi ne soffre, infatti, è sopraffatto dal terrore all’idea di venire a contatto magari con un animale innocuo come un ragno o una lucertola, o di fronte alla prospettiva di compiere un’azione che lascia indifferenti la maggior parte delle persone, ad esempio, il claustrofobico non riesce a prendere l’ascensore o la metropolitana. Le persone che soffrono di fobie si rendono perfettamente conto dell’irrazionalità della propria paura, ma non possono controllarla.
L’ansia da fobia, o “fobica”, si esprime con sintomi fisiologici come tachicardia, vertigini, extrasistole, disturbi gastrici e urinari, nausea, diarrea, senso di soffocamento, rossore, sudorazione eccessiva, tremito e spossatezza. Con la paura si sta male e si desidera una cosa sola: fuggire! Scappare, è una strategia di emergenza. La tendenza ad evitare tutte le situazioni o condizioni che possono essere associate alla paura, sebbene riduca sul momento gli effetti della fobia, in realtà costituisce una micidiale trappola: ogni evitamento, infatti, conferma la pericolosità della situazione evitata e prepara l’evitamento successivo, ogni evitamento rinforza negativamente la paura. Tale spirale di progressivi evitamenti produce l’incremento, non solo della sfiducia nelle proprie risorse, ma anche della reazione fobica della persona, al punto da interferire significativamente con la normale routine dell’individuo, con il funzionamento lavorativo o scolastico oppure con le attività o le relazioni sociali. Il disagio diviene così sempre più limitante.

Tipi di fobie

Quando si parla di fobie ci si riferisce in genere a: fobia dei cani, fobia dei gatti, fobia dei ragni, fobia degli spazi chiusi, fobia degli insetti, fobia dell’aereo, fobia del sangue, fobia delle iniezioni, ecc.
Più precisamente, esistono le fobie generalizzate (agorafobia e fobia sociale), fortemente invalidanti, e le comuni fobie specifiche, generalmente ben gestite dai soggetti evitando gli stimoli temuti, che si classificano così:
* Tipo animali. Fobia dei ragni (aracnofobia), fobia degli uccelli o fobia dei piccioni (ornitofobia), fobia degli insetti, fobia dei cani (cinofobia), fobia dei gatti (ailurofobia), fobia dei topi, ecc..
* Tipo ambiente naturale. Fobia dei temporali (brontofobia), fobia delle altezze (acrofobia), fobia del buio (scotofobia), fobia dell’acqua (idrofobia), ecc..
* Tipo sangue-iniezioni-ferite. Fobia del sangue (emofobia), fobia degli aghi, fobia delle siringhe, ecc.. In generale, se la paura viene provocata dalla vista di sangue o di una ferita o dal ricevere un’iniezione o altre procedure mediche invasive.
* Tipo situazionale. Nei casi in cui la paura è provocata da una situazione specifica, come trasporti pubblici, tunnel, ponti, ascensori, volare (aviofobia), guidare, oppure luoghi chiusi (claustrofobia o agorafobia).
* Altro tipo. Nel caso in cui la paura è scatenata da altri stimoli come: il timore o l’evitamento di situazioni che potrebbero portare a soffocare o contrarre una malattia ecc. Una forma particolare di fobia riguarda il proprio corpo o una parte di esso, che la persona vede come orrende, inguardabili, ripugnanti (dismorfofobia).


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Cos’è l’autostima?

L’autostima è definita come “la valutazione che una persona dà di se stessa e applica a se stessa”. A seconda della percezione che ciascuno ha di sé, l’autostima può tradursi in atteggiamenti negativi: con ansia, apprensione, senso di inadeguatezza, scarsa fiducia nelle proprie capacità; o positivi: positività, apertura agli altri e alle situazioni, assertività. Indica infatti in che misura la persona si considera importante, capace e di valore.
Rappresenta pertanto uno degli elementi fondamentali per la nostra salute mentale.

Come si sviluppa

Per lo sviluppo di una sana autostima assumono particolare rilevanza i primi anni dell’infanzia, in cui vengono poste le fondamenta per la costituzione del senso fondamentale di fiducia in sé e negli altri. Il bambino sviluppa fiducia in se stesso sentendo che altri lo accettano e accettando egli stesso i suoi bisogni. Anche gli anni dello sviluppo successivi (ad esempio, l’adolescenza) sono significativi, per l’acquisizione dell’autonomia fisica e psicologica, necessaria per lo sviluppo di un senso di autocontrollo.
Questo permette che si superino le inevitabili crisi della crescita senza che si verifichi la perdita dell’autostima in seguito agli insuccessi e alle inevitabili frustrazioni. Per tutto il ciclo di vita, la fiducia nelle proprie capacità favorisce le relazioni sociali e la possibilità di accesso ai propri sentimenti e pensieri intimi. Dunque, lo sviluppo dell’autostima è un processo che dura per tutta la vita e il cui esito dipende dal superamento delle crisi naturali dello sviluppo. Il superamento di tali crisi è naturalmente connesso al comportamento delle figure genitoriali che hanno una particolare influenza sulla percezione di un adeguato senso di sé, sull’autostima e sulla possibilità di costruire e mantenere soddisfacenti rapporti con gli altri.

Alta e bassa Autostima

L’autostima può suddividersi in positiva e negativa. Se ci valorizziamo la nostra autostima sarà alta altrimenti sperimenteremo quella che viene chiamata bassa autostima. Le persone con alta autostima non sono necessariamente più dotate (intelligenti, competenti, attraenti) di quelle con bassa autostima. Quello che le distingue sono invece le loro convinzioni sulle proprie capacità, il loro atteggiamento rispetto alle prove della vita, le loro reazioni ai successi e ai fallimenti, il loro comportamento sociale. La bassa autostima si può manifestare attraverso due modalità:
* sottovalutazione di sé: la persona tende a focalizzare l’attenzione sui propri errori e fallimenti, sui difetti e sulle opportunità mancate, piuttosto che sulle qualità e i successi.
* sopravvalutazione di sé: la persona vede solo i suoi pregi.
Sia la persona che si sottovaluta, sia la persona con un atteggiamento arrogante hanno una bassa autostima, in quanto la persona che ha un sano amore per se stessa ammette con serenità sia i suoi pregi che i suoi limiti, cercando di migliorare. Avere una bassa stima di sé può rivelarsi uno svantaggio in tutte quelle circostanze in cui ci si deve presentare agli altri, ad esempio nel caso di un colloquio di lavoro o quando si entra in contatto con persone nuove che potrebbero diventare amici, colleghi, o anche partner. Inoltre, si è anche visto che persone che dubitano del proprio valore sono anche più propense a modificare il loro pensiero in funzione dell’ambiente in cui si trovano e dell’interlocutore che hanno davanti, e difficilmente si sbilanceranno, come invece fanno le persone con un’alta stima di sé, nell’affermare il proprio punto di vista. In questo senso, il rischio che corrono le persone con una bassa autostima è quello di far prevalere il bisogno di essere accettati su un altro dei bisogni fondamentali dell’uomo che è quello di realizzarsi, obiettivo che viene raggiunto anche attraverso l’esprimere con sicurezza il proprio punto di vista e il proprio valore.

Bassa Autostima e Amore

Alcuni problemi di coppia possono essere riconducibili alla scarsa stima di sé dei partner.
La presenza di una bassa autostima può portare gli individui a sviluppare una dipendenza affettiva nei confronti del partner che è l’antitesi dell’amore verso sé.
La dipendenza affettiva si caratterizza per la paura della solitudine unita ad un senso di incapacità ed insicurezza che può portare perfino a mantenere relazioni dove si viene trattati male pur di non vivere l’angoscia dell’abbandono. Si prova panico ed ansia quando le circostanze esigono autonomia ed si ha l’intima convinzione di non essere all’altezza. Avendo orrore dell’aggressione e del conflitto il dipendente affettivo li evita accuratamente, mantenendo però un fondo di collera verso la persona a cui si è “affidata”.
Manca in queste persone la capacità di assumersi le responsabilità: tendono infatti a lamentarsi in modo compulsivo, cercando di essere rassicurati invece di fare qualcosa per uscire da una situazione difficile.
Il dipendente affettivo presenta un terribile handicap, l’incapacità di essere felice, arginata solo da una stampella: l’altro. Dipende dall’altro per essere felice e, soprattutto, per essere amato. Diventa dipendente dall’altro per provare qualcosa e per esistere. Perde allora del tutto la sua autonomia e finisce con il vivere per procura. Il dipendente affettivo in coppia è un adepto dell’amore simbiotico: sparisce progressivamente e diventa l’ombra dell’altro.
Il dipendente affettivo, nonostante sperimenti un’intensa sofferenza quando subisce un rifiuto e desideri essere accettato, assume atteggiamenti e si comporta in modo da respingere gli altri piuttosto di attrarli. Le persone con bassa autostima hanno un’enorme e spesso inappagato bisogno di amore e di intimità, ma le persone che attraggono e da cui sono attratti spesso non sono di aiuto.
Chi non ha amore a sufficienza per sè non è nemmeno in grado di nutrire i bisogni affettivi dell’altro. Così le aspettative reciproche non vengono soddisfatte e ciò porta alla delusione, alla sfiducia nelle proprie capacità relazionali e nella possibilità di essere amati.
Quando si ha un buon livello di autostima si è in grado di costruire relazioni nutrienti, essendo attratti da persone positive, aperte al cambiamento, capaci di dare e nello stesso tempo di ricevere.

Bassa Autostima e Vita Lavorativa

Gli effetti dell’autostima si possono riscontrare anche nella propria vita lavorativa. Senza fiducia nella propria vita e qualità positive si può essere ostacolati nella realizzazione creativa di sé. La scarsa autostima può condurre a svolgere un lavoro poco interessante, a sottostare a costrizioni impegnative o a rinunciare a molte delle proprie originali aspirazioni; infatti, per le persone che si valorizzano poco, è più facile impegnarsi in queste scelte anche poco soddisfacenti, piuttosto che pensare di modificarle o addirittura di abbandonarle per una possibile nuova alternativa. In ogni caso, sebbene ci si provi a cautelare agendo il meno possibile e limitando i propri obiettivi, capita comunque a tutti di sbagliare, ma se questo non è un dramma per le persone che hanno una buona opinione di se stesse, lo può diventare per quelle che al contrario non sanno valorizzarsi a sufficienza. In effetti, mentre le persone con una buona autostima sono più propense a relativizzare un insuccesso e ad impegnarsi in nuove imprese che le aiutano a dimenticare, le persone che hanno una scarsa stima di sé faticano ad abbandonare i sentimenti di delusione e amarezza connessi allo sperimentare un insuccesso; anche le critiche sono affrontate in modo diverso: le persone con una bassa stima di sé sono più sensibili sia all’intensità del disagio provocato dalla critica, sia alla sua durata.

Bassa Autostima e Sintomi Psicologici

La scarsa stima di sé è spesso alla base della formazione di sintomi di vario tipo: Paure e Fobie Disturbi d’Ansia Depressione Disordini Alimentari Dipendenza Affettiva Stress Impegnarsi a cambiare e ad acquisire una maggiore stima di sé appare pertanto fondamentale al fine di preservare la propria salute e sviluppare un’adeguata autorealizzazione. Svilluppo dell’Autostima e Psicoterapia L’autostima è innanzitutto una scelta. E’ sempre possibile intervenire per cambiare l’effetto negativo di una bassa autostima negli ambiti sociali, lavorativi o sentimentali. Per modificare la stima di sé è necessaria la volontà di cambiare alcuni dei propri atteggiamenti e del proprio modo di affrontare la vita. Per cambiare il proprio rapporto con se stessi è necessario cambiare opinione su di sé e quindi è essenziale imparare a conoscersi – diventando consapevoli dei propri limiti, dei propri bisogni ed esigenze e anche delle proprie capacità – e in secondo luogo – pur continuando a sforzarsi nel modificare ciò che di noi può essere reso migliore – bisogna riuscire ad accettarsi, evitando di pretendere da se stessi la perfezione. Il conseguimento di questo obiettivo potrebbe essere raggiunto intraprendendo un percorso di psicoterapia: può infatti aiutare la persona a sviluppare, una maggiore fiducia nelle proprie capacità e una valutazione più realistica di sé e degli altri. Tramite i colloqui con lo psicoterapeuta si possono trovare dei modi differenti e più funzionali di organizzare l’esperienza di sé e degli altri, e incrementare quell’insieme di capacità che sono alla base di una adeguata stima di sé.


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Stress

Lo stress è uno stato di maggiore attivazione dell’organismo rispetto alla norma, come risposta di adattamento a situazioni e contesti percepiti come problematici o pericolosi. A livello fisico è sostenuto principalmente dagli ormoni adrenalina e cortisolo, prodotti dalle ghiandole surrenali. Lo stress può essere acuto o cronico e il suo perdurare nel tempo può portare a sintomi psicofisici e predisporre all’insorgenza di alcune malattie, tra cui in particolare quelle gastroenteriche e cardiovascolari.
Lo stress è costituito da uno stato di allerta che ha, almeno all’inizio, una funzione importante e salutare: il soggetto sente la presenza di pericoli, oggettivi o immaginari ma vissuti sempre come reali, che mettono a rischio il suo equilibrio psicoemotivo oppure di condizioni che richiedono una risposta immediata ed efficace. Di conseguenza si “allerta” per essere in grado di superarle queste situazioni. Tuttavia lo stress può trasformarsi, da stato temporaneo di attivazione delle risorse, una condizione patologica di continua ansia o sovraffaticamento psichico del tutto slegata da una qualche funzione utile.
Lo Stress rappresenta una intensa risposta psicofisica da parte di tutto l’organismo di fronte a richieste, sia mentali che fisiologiche, soggettivamente eccessive (questo in quanto la risposta di Stress dipende dalla personale valutazione interna rispetto allo specifico stimolo-situazione).
Quando arriva lo Stress si ha allora uno stato di “esaurimento psicofisico” dovuto ad una situazione di cambiamento, che ha reso necessario un grande dispendio adattivo, sia a livello fisico che psicologico.
Per quanto accennato la dinamica di Stress è una reazione di adattamento dell’organismo a fattori di mutamento interno o esterno; essa inoltre può essere “acuta”, nel caso in cui si verifichi in uno spazio temporale abbastanza limitato ed una sola volta, oppure “cronica”, cioè quando essa si manifesta lungo un arco di tempo lungo ed in modo continuo.
E’ bene però precisare che lo Stress può anche risultare utile e funzionale per superare certe difficoltà nel breve momento, in gergo questo tipo di Stress è conosciuto come “Stress buono” e in psicologia viene definito “Eustress”; esso però può ben presto divenire pericoloso e dannoso se eccessivamente prolungato nel tempo, in tal caso si definisce, sempre in modo gergale, “Stress cattivo” e secondo le teorie psicologiche “Distress”.
Dunque lo Stress non va sempre e comunque considerato negativamente ed evitato, ma bensì considerato, se breve e non intenso, come elemento vitale e funzionale al miglioramento adattivo in senso biologico, mentale e caratteriale. Nei casi invece in cui esso risulta essere pesante e prolungato, inducendo forte menomazione in molte dinamiche interne ed esterne della persona, allora diviene una seria patologia dalla quale possono poi derivare molteplici altri disturbi psicofisici.
L’essere umano possiede a livello connaturato la capacità di adattarsi alle situazioni avverse, definite appunto “stressanti”, attraverso meccanismi psichici e fisiologici di reazione-azione che cercano di compensare e riequilibrare le normali e funzionali dinamiche biologiche e mentali.
Quando però i fattori di stress sono eccessivi e/o troppo prolungati la persona esaurisce le riserve di energia utili per le reazioni di adattamento, recupero e riequilibrio, finendo per incappare in una serie di problematiche sia psichiche, che fisiche e gradualmente in veri e propri disturbi aventi sintomi gravemente disfunzionali nelle varie sfere vitali dell’individuo. In tal modo se lo Stress continua e si intensifica può comportare la comparsa di veri e propri Disturbi da Stress o dell’Adattamento, contraddistinti da sintomi psicofisici negativi ed invalidanti per le molteplici aree fondamentali della vita della persona.
Si realizza così una sorta di processo stressogeno, definito anche come “Sindrome generale di adattamento”, nel quale le componenti psicologiche e fisiche attraversano tre fasi: 1. allarme-attivazione; 2. resistenza-adattamento; 3. esaurimento-comparsa di problemi psicofisici.
I Disturbi da Stress o dell’Adattamento, sono caratterizzati dallo sviluppo di sintomi psico-emotivi, comportamentali e fisici in risposta a specifici e ben identificabili fattori stressanti entro tre mesi dalla comparsa di questi ultimi. Proprio come suggerisce il loro nome, in tali Disturbi la persona non riesce ad “adattarsi” ai fattori di stress, finendo per accusare problemi e disturbi psicofisici.
I disagi che comportano divengono sempre più intensi, disturbanti e compromettenti per le varie aree vitali dell’esistenza (es. sociale, lavorativa, familiare, affettiva, scolastica, etc.) e superano ben presto la normale e funzionale capacità di reazione allo stress insita in ogni individuo.
I Disturbi da Stress vengono solitamente classificati sulla base della tipologia predominante di sintomi presente; in tal modo si possono distinguere:
* disturbo da Stress con umore depresso
* disturbo da Stress con ansia
* disturbo da Stress con ansia e umore depresso
* disturbo da Stress con alterazione della condotta (dei comportamenti socialmente e moralmente normali)
* disturbo da Stress con alterazione dell’emotività e della condotta
Solitamente eventi e/o periodi più o meno lunghi di Stress derivano da molteplici fattori (definiti anche “Agenti stressanti” o “Stressors”); ne sono degli esempi: ritmi sempre più frenetici, contraccolpi o cambiamenti repentini nelle aree vitali principali (sociale, familiare, scolastica, lavorativa, relazionale, personale, etc.) come ad esempio la morte di un caro, il pensionamento, il divorzio, la perdita del lavoro, la fine di una storia d’amore o d’amicizia.
Altri fattori di Stress possono essere: inquinamento, dinamiche ambientali o stagionali (es. innalzamento o abbassamento della temperatura, cambiamenti del clima o passaggi da stagione a stagione, etc.), sollecitazioni psicofisiche prima e durante intense attività fisiche e/o psicologiche, sport a livello agonistico, mutamenti storici, politici, sociali, etc. eclatanti, forti pressioni lavorative o scolastiche (es. in concomitanza di prove e resoconti, come infatti spesso succede ad alcuni studenti alla fine dell’anno di scuola o di fronte a verifiche e compiti, oppure a certi lavoratori davanti a mansioni specifiche e pesanti). Possono risultare molto stressanti anche situazioni e cambiamenti positivi come ad esempio il matrimonio, la nascita di un figlio, una promozione, una novità felice, etc. e l’abuso di alcol, tabacco e/o ulteriori sostanze psicoattive. Negli ultimi anni purtroppo la frequenza e l’intensità dei suddetti fattori stanno aumentando in esponenziale, con il risultato di rendere sempre più difficile o molte volte impossibile il naturale adattamento psicofisico dell’organismo, in corrispondenza di situazioni stressanti.
Nei Disturbi da Stress (o dell’Adattamento), a livello neurofisiologico, si assiste all’aumento o alla diminuzione-inibizione di certi ormoni (es. di certi Neurotrasmettitori come Dopamina, Noradrenalina o Serotonina) e di ulteriori sostanze cruciali per il buon funzionamento mentale e fisico ed il generale mantenimento della salute psichica ed organica.
In breve la Serotonina regola e media l’orologio interno, la temperatura, ed il funzionamento di molteplici sistemi organici, la Noradrenalina regola invece le trasmissione nervosa, i livelli di energia, il tono ed i meccanismi di ulteriori organi, infine la Dopamina è mediatrice di sostanze antidolore e responsabili del senso di piacere come ad esempio le Endorfine.
Quanto accennato fa ben capire quanto lo Stress eccessivo possa arrecare squilibri, problemi e patologie psicofisiche rappresentate da molteplici sintomi negativi e dannosi per il regolare funzionamento dei vari aspetti dell’esistenza della persona.
A livello fisiologico i Disturbi da Stress (o dell’Adattamento) provocano infatti anche affaticamento, rallentamento dei processi fisici, indebolimento, iperproduzione di ormoni androgeni (con aumento di problemi dermici e dei suoi annessi, come unghie o capelli), malfunzionamento tiroideo, ipersudorazione, inappetenza o iperfagia, battito cardiaco irregolare, sbalzi pressori, respiro corto, tosse, ulcera, acidità di stomaco (colite), stipsi, diarrea, dolori gastrointestinali, digestione difficile, crampi, contratture, blocchi, tensioni muscolari, cefalea.
A livello mentale i Disturbi da stress (o dell’Adattamento) inducono invece senso di stanchezza, spossatezza ed ottundimento, difficoltà cognitive e rallentamento delle prestazioni neuropsichiche, depressione o umore altalenante, sonno disturbato, ansia, attacchi di panico, nervosimo, problemi sessuali (es. calo del desiderio, orgasmo problematico, eiaculazione precoce, etc.), irritabilità e aggressività, sintomi psicosomatici, tachicardia, vertigini, comportamenti alimentari compulsivi, agitazione, senso di tensione e di infelicità diffuse.
I Disturbi da Stress (o dell’Adattamento) possono inoltre comportare, nelle situazioni più gravi e croniche, abuso di alcol e/o altre sostanze psicoattive, idee e tentativi di suicidio, complicazioni anche serie di eventuali patologie fisiche preesistenti al loro esordio.


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Cos’è la Depressione

La depressione è un disturbo dell’umore molto diffuso. Ne soffrono circa 15 persone su 100. Si calcola che su 6 neonati, almeno uno soffrirà di depressione durante la sua vita. Il disturbo depressivo può colpire chiunque a qualunque età, ma è più frequente tra i 25 e i 44 anni di età ed è due volte più comune nelle donne adolescenti e adulte, mentre le bambine e i bambini sembrano soffrirne in egual misura.
Tutti quanti abbiamo l’esperienza di una giornata storta, in cui siamo giù di corda, tristi, più irritabili del solito e “ci sentiamo un po’ depressi”. Molto probabilmente non si tratta di un disturbo depressivo, ma di un calo d’umore passeggero. La depressione clinica invece presenta molti altri sintomi e si prolunga nel tempo. Chi ne soffre ha un umore depresso per tutta la giornata per più giorni di seguito e non riesce più a provare interesse e piacere nelle attività che prima lo interessavano e lo facevano stare bene. Si sente sempre giù e/o irritabile, si sente stanco, ha pensieri negativi, e spesso sente la vita come dolorosa e senza senso (“dolore del vivere”).
L’episodio depressivo costituisce una delle esperienze peggiori che si possono avere nella vita. Ci si sente senza speranza, senza poteri né risorse, completamente impotenti difronte alla vita e alle persone. Mancano le energie per fare qualsiasi attività, fisica e mentale. E del resto niente sembra interessare più né in grado di dare piacere. Si guarda la propria vita e tutto appare un fallimento, un susseguirsi di perdite di cui spesso ci si sente colpevoli. Oppure si è convinti che la colpa sia degli altri, della vita, della sfortuna e ci si sente arrabbiati con tutto e tutti e si arriva a farsi terra bruciata intorno. L’isolamento è cercato e sofferto, e appare inevitabile.

I sintomi della Depressione

I sintomi principali della depressione clinica sono l’umore depresso e/o la perdita di piacere e interesse per quasi tutte le attività che prima interessavano e davano piacere. Molto frequentemente si presentano l’anedonia (stanchezza, affaticamento, mancanza di energie) e la demotivazione. Oltre a questi sintomi, la persona depressa può soffrire di un aumento o una diminuzione significative dell’appetito e quindi del peso corporeo senza essere a dieta; può presentare rallentamento o agitazione motorie e disturbi del sonno (dorme di più o di meno o si sveglia spesso durante la notte o non riesce ad addormentarsi o si sveglia precocemente); può non riuscire a concentrarsi, mantenere l’attenzione e prendere decisioni. Il sintomo soggettivo prevalente è la sensazione di essere inutile, negativo o continuamente colpevole che può arrivare all’odio verso di sé; spesso sono presenti pensieri di morte o di suicidio, che possono andare da un vago senso di morte e desiderio di morire fino all’intenzione di farla finita con una vera e propria pianificazione e tentativi di suicidio.
La caratteristica principale dei sintomi depressivi è la pervasività: sono presenti tutti i giorni per quasi tutto il giorno per almeno 15 giorni.

Come si manifesta la Depressione

E’ raro che una persona depressa abbia contemporaneamente tutti i sintomi riportati sopra, ma se soffre quotidianamente dei primi due sintomi su descritti e di almeno altri tre è molto probabile che abbia un disturbo depressivo.
Spesso la depressione si associa ad altri disturbi, sia psicologici (frequentemente di ansia) sia medici. In questi casi la persona si deprime per il fatto di avere un disturbo psicologico o medico. 25 persone su 100 che soffrono di un disturbo organico, come il diabete, la cardiopatia, l’HIV, l’invalidità corporea fino ad arrivare ai casi di malattie terminali, si ammalano anche di depressione. Purtroppo la depressione può portare ad un aggravamento ulteriore, dato che quando si è depressi si ha difficoltà a collaborare nella cura, perché ci si sente affaticati, sfiduciati, impotenti e si ha una scarsa fiducia di migliorare. Inoltre, la depressione può complicare la cura anche per le conseguenze negative che può avere sul sistema immunitario e sulla qualità di vita già compromessa dalla malattia medica.
I sintomi depressivi possono alternarsi, e a volte presentarsi in contemporanea, a sintomi di eccitamento (euforia, irritazione, impulsività, loquacità, pensieri veloci che si accavallano e a cui è difficile stare dietro, sensazioni di grandiosità, infinita potenzialità personale o convinzioni di essere perseguitati). In questo caso si tratta di episodi depressivi o misti all’interno di un disturbo bipolare dell’umore.

Decorso e conseguenze della Depressione

La depressione è un disturbo spesso ricorrente e cronico. Chi si ammala di depressione può facilmente soffrirne più volte nell’arco della vita. Mentre nei primi episodi l’evento scatenante è facilmente individuabile in un evento esterno che la persona valuta e sente come perdita importante e inaccettabile, nelle ricadute successive gli eventi scatenanti sono difficilmente individuabili perché spesso si tratta di eventi “interni” all’individuo come un normale abbassamento dell’umore, che per chi è stato depresso già diverse volte è preoccupante e segnale di ricaduta.
Il disturbo depressivo può portare a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre. Non si riesce più a lavorare o a studiare, a iniziare e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse nelle attività. 15 persone su 100 che soffrono di depressione clinica grave muoiono per suicidio. Più giovane è la persona colpita, più le compromissioni saranno gravide di conseguenze. Per esempio un adolescente depresso non riesce a studiare e ad avere relazioni, e quindi non riesce a costruire i mattoni su cui costruire il proprio futuro.

Le cause della Depressione

Come per altri disturbi psichiatrici non c’è ancora una letteratura sufficientemente robusta e condivisa sulle cause del disturbo. Per spiegarle si fa di solito ricorso a modelli di tipo bio-psico-sociali. In generale, si può dire che cause della malattia sono molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, relazioni affettive precoci, avere un caregiver depresso, lutti familiari, problemi di lavoro, relazionali, etc.).
Le ricerche hanno scoperto due cause principali: il fattore biologico, per cui alcuni hanno una maggiore predisposizione genetica verso questa malattia; e il fattore psicologico, per cui le nostre esperienze (particolarmente quelle infantili) possono portare ad una maggiore vulnerabilità acquisita alla malattia.
La vulnerabilità biologica e quella psicologica interagiscono tra di loro e non necessariamente portano allo sviluppo del disturbo. Una persona vulnerabile può non ammalarsi mai di depressione, se non capita qualcosa in grado di scatenare il disturbo e se ha relazioni buone e supportive. Il fattore scatenante è spesso qualche evento stressante o qualche tensione importante che turba la nostra vita e che è valutata il termini di perdita importante e non accettabile.
Quindi si può trattare di un evento negativo di perdita (un lutto, la fine di una relazione, la perdita del lavoro, etc.) oppure un evento positivo ma sempre valutato come perdita (la nascita di un figlio che “toglie libertà”, la laurea in cui si perde lo status di studente, etc.) o la mancanza di eventi positivi per i quali ci si è impegnati tanto come per esempio una promozione. Mentre è piuttosto semplice individuare la causa che ha scatenato un primo episodio depressivo, lo è molto difficile quando gli episodi aumentano.

Come si cura la Depressione

La Psicoterapia ha mostrato scientificamente una buona efficacia sia sui sintomi acuti che sulla ricorrenza. A volte è necessario associare farmaci antidepressivi o regolatori dell’umore, soprattutto nelle forme moderate-gravi.
Nel corso della Psicoterapia la persona viene aiutata a prendere consapevolezza dei circoli viziosi che mantengono e aggravano la malattia e a liberarsene gradualmente attraverso la riattivarsi del comportamento e l’acquisizione di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali. Inoltre, dal momento che la depressione è un disturbo ricorrente, la Psicoterapia prevede una particolare attenzione alla cura della vulnerabilità alla ricaduta.
La psicoterapia nella depressione minore è fondamentale per aiutare la persona a ritrovare le sue risorse. Innanzitutto il depresso cerca un luogo dove mettere la sofferenza e lo può fare in terapia senza temere di essere “pesante” per chi lo ascolta. La vita è fatta di continui riadattamenti. Chi non riesce ad adattarsi può cadere in depressione, perché resta legato al passato, dove ci sono perdite e rimpianti. La psicoterapia aiuta a ricuperare il permesso di cambiare e di vivere una vita “imperfetta”.
La psicoterapia nella depressione grave deve tener conto che il depresso è molto angosciato, che la sua parte adulta è sovrastata da idee grandiose pessimistiche, e che il suo comportamento assomiglia a quello di un bambino incapacitato. Pertanto l’atteggiamento del terapeuta è di tipo genitoriale con accoglienza, sostegno e protezione. L’aiuto ha l’obiettivo di far accettare alla persona gli interventi necessari, siano essi i farmaci o anche un ricovero, di contenere il dolore perché non si senta solo; di proteggerlo da eventuali gesti lesivi o da comportamenti dannosi.
In questa depressione la causa scatenante è spesso una perdita, che acquista significato catastrofico: l’oggetto perduto aveva un enorme, se non assoluto, potere gratificante. Tale fragilità di “gratificazione autonoma” connota la personalità del depresso grave.
Solo quando la crisi depressiva è migliorata e la persona si rende conto che il suo pensiero magico negativo era esagerato, il terapeuta può aiutare a rafforzare il pensiero adulto, per migliorare l’autonomia. La persona si lascia allora il passato alle spalle e può rimettersi in cammino.


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Disturbi di Personalità

I Disturbi di Personalità vengono raggruppati in tre Cluster (Insiemi):

1. Cluster A: disturbi di personalità caratterizzati da condotte strane o eccentriche.

2. Cluster B: comportamenti drammatici o eccentrici.

3. Cluster C: condotte ansiose o inibite.

I Disturbi di Personalità costituiscono delle modalità, relativamente inflessibili, di percepire, reagire e relazionarsi alle altre persone e agli eventi; tali modalità riducono pesantemente le possibilità del soggetto di avere rapporti sociali efficaci e soddisfacenti per sé e per gli altri.
Ognuno di noi ha particolari e caratteristiche modalità di relazionarsi agli altri e agli eventi (tratti di personalità). Ad esempio, le persone tendono a gestire le situazioni problematiche in un modo peculiare e consistente nel tempo e rispetto ai vari contesti esistenziali. Per esempio, alcune persone reagiscono a situazioni problematiche cercando aiuto e supporto; altri preferiscono fronteggiare le stessi situazioni difficoltose in totale autonomia. Alcuni individui minimizzano i problemi mentre altri li esagerano.
Le persone in grado di adattarsi efficacemente alle diverse situazioni della vita tendono ad assumere una modalità alternativa quando lo stile abituale risulta inefficace. Al contrario, gli individui con un Disturbo di Personalità sono rigidi e tendono a rispondere in modo inappropriato ai problemi della vita fino al punto che le relazioni con i propri familiari, gli amici e i colleghi di lavoro divengono difficoltosi, insoddisfacenti conflittuali o vengono sistematicamente evitati. Tali modalità disadattive appaiono generalmente in adolescenza o nella prima età adulta e tendono a rimanere stabili nel tempo. I Disturbi di Personalità si differenziano rispetto alla gravità: sono generalmente lievi e raramente molto severi.
La maggior parte delle persone con un Disturbo di Personalità risulta insoddisfatta e sofferente rispetto alla propria esistenza, inoltre, presenta numerosi problemi interpersonali sul lavoro o nelle situazioni sociali. Sono molto frequenti sintomi depressivi, ansia, abuso di sostanze o disturbi alimentari. I soggetti con un Disturbo di Personalità sono ignari che il loro pensiero o i propri modelli di comportamento sono inappropriati e disfunzionali: quindi, tendono a non cercare l’aiuto di uno specialista. Invece, possono essere segnalati ai servizi psichiatrici dai loro amici o dai membri della famiglia dal momento che il loro comportamento causa significative difficoltà ad altre persone. Quando cercano aiuto autonomamente generalmente questo avviene a causa dei problemi quotidiani generati dal loro Disturbo di Personalità, o a causa di sintomi disturbanti quali ad esempio: ansia, depressione o abuso di sostanze; in questi casi, comunque, tendono a ritenere che i loro problemi siano causati dalle altre persone o dalle circostanze della vita sulle quali non ritengono di avere controllo.
Fino a poco tempo fa, si riteneva comunemente che il trattamento psicoterapico non risultasse efficace per il trattamento dei disturbi di personalità. Tuttavia, alcune tipologie di psicoterapia, prima fra tutte quella cognitivo-comportamentale, sono risultate efficaci nell’aiutare le persone affette da questi disturbi.

Personalità Paranoide (cluster A)

Le persone con un disturbo di personalità paranoide risultano sospettose e diffidenti nei confronti degli altri. Sulla base di poche o nessuna prova, sospettano che gli altri siano intenzionati a danneggiarli e, generalmente, trovano motivazioni ostili o malevole dietro le azioni altrui. A causa di ciò, gli individui con personalità paranoie possono attuare condotte che essi ritengono giuste rappresaglie ma che le altre persone reputano eccessive o ingiustificate. Questo comportamento conduce spesso al rifiuto da parte delle altre persone: tale conseguenza viene generalmente presa a conferma della percezione iniziale di ostilità e malevolenza altrui. I soggetti con personalità paranoide risultano generalmente fredde e distanti nei rapporti sociali.
Questi individui intraprendono spesso azioni legali contro altre persone, soprattutto se si ritengono giustamente indignate. Generalmente non riconoscono il peso del proprio comportamento nelle genesi dei conflitti interpersonali nei quali si trovano di frequente implicati. Solitamente lavorano in condizioni di relativo isolamento sociale ma, nonostante ciò, possono essere altamente efficienti e coscienziosi.

Personalità Schizoide (cluster A)

Le persone con una personalità schizoide sono introversive, ritirate e solitarie. Sono emozionalmente fredde e socialmente distanti. Generalmente sono concentrate sui propri pensieri e sentimenti e risultano intimoriti dalla prossimità e dall’intimità con altre persone. Sono poco comunicativi, si dedicano a sogni ad occhi aperti e preferiscono la speculazione teorica all’azione pratica.

Personalità Schizotipico (Cluster A)

I soggetti caratterizzati da una personalità schizotipica, similmente agli schizoidi, risultano socialmente ed emozionalmente distaccati. Inoltre, mostrano bizzarrie nel pensiero, nella percezione e nella comunicazione simili a quelle rintracciabili nella schizofrenia. Anche se la personalità schizotipica può a volte precedere l’esordio della schizofrenia, la maggior parte degli adulti con questo disturbo di personalità non sviluppano schizofrenia.
Alcune persone con personalità schizotipica mostrano segni di pensiero magico che consiste nella convinzione che i propri pensieri o azioni possano controllare eventi e/o altre persone senza agire direttamente su di loro. Per esempio, possono temere di danneggiare qualcuno soltanto facendo pensieri aggressivi. I soggetti con una personalità schizotipica possono anche presentare idee paranoidi.

Personalità Istrionica (Cluster B)

Le persone con un disturbo di personalità istrionica cerca sistematicamente l’attenzione altrui, risultano drammatici nell’espressione dei sentimenti ed eccessivamente emotivi e sono eccessivamente preoccupati per di come appaiono agli altri.Le loro modalità interpersonali vivaci ed espressive induco facilmente le altre persone a coinvolgersi emotivamente con questi soggetti ma i rapporti sono spesso superficiali e transitori. La loro espressione emotiva risulta spesso esagerata, infantile e indirizzata ad evocare compassione o attenzione (spesso erotica o sessuale) da parte degli altri.
I soggetti con una personalità istrionica sono proni a condotte sessualmente provocatorie o a sessualizzare interazioni non sessuali. Ad ogni modo, essi non desiderano realmente una relazione sessuale; piuttosto, il loro comportamento seduttivo esprime un intenso desiderio di essere dipendenti e protetti. Alcune persone con una personalità istrionica sono ipocondriache ed esagerano i problemi fisici per ottenere l’attenzione altrui.

Personalità Narcisistica (Cluster B)

Le persone con una personalità narcisistica sono caratterizzate da senso di superiorità, esigenza di ammirazione e mancanza di empatia. Esprimono una credenza esagerata nel loro proprio valore o importanza, comunemente denominata “grandiosità”. Possono essere estremamente sensibili ai fallimenti, alla sconfitta, o alla critica. Se incontrano un fallimento, a causa della loro elevata opinione di se stessi, possono facilmente manifestare estrema rabbia o depressione. Dal momento che si vedono superiori agli altri spesso pensano di essere ammirati o invidiati. Credono di essere autorizzati a soddisfare i propri bisogni senza attendere, per cui possono sfruttare gli altri, i cui bisogni e opinioni vengono ritenuti di scarso valore. Il loro comportamento risulta solitamente offensivo per gli altri, che li vedono come auto-centrati, arroganti o egoisti. Questo disturbo di personalità si presenta tipicamente in uomini d’azione, ma può essere riscontrato anche in soggetti con scarsi successi.

Personalità Antisociale (Cluster B)

I soggetti con personalità antisociale (precedentemente denominata personalità psicopatica o sociopatica), la maggior parte dei quali sono maschi, mostrano sistematiche e croniche negligenze per i diritti e le sensibilità altrui. La disonestà e la frode pervadono i loro rapporti sociali. Sfruttano gli altri per ottenere vantaggi materiali o soddisfazione personale (differiscono dai soggetti narcisisti, che sfruttano le altre persone reputando giustificate tali azioni in virtù della loro presunta superiorità). Tipicamente, la persone con una personalità antisociale sono impulsive ed irresponsabili. Tollerano male la frustrazione e, non di rado, sono ostili o violente.
Spesso non prevedono le conseguenze negative dei loro comportamenti antisociali e, malgrado i problemi o i danni che causano agli altri, non provano rimorso o colpa. Piuttosto, razionalizzano il loro comportamento o danno la colpa agli altri per ciò che hanno fatto. La frustrazione e la punizione non risultano sufficienti a motivarli a modificare i loro comportamenti e tendono a non migliorare il loro giudizio o la disponibilità ad anticipare le conseguenze negative delle proprie azioni ma, piuttosto, tendono a confermare la propria visione fortemente insensibile del mondo.
Le persone con una personalità antisociale sono inclini all’alcolismo, all’abuso di sostanze, alle perversioni sessuali, alla promiscuità e, facilmente, finiscono in carcere. Molto spesso falliscono nel lavoro o cambiano spesso attività in maniera imprevedibile e irresponsabile. Spesso hanno una storia familiare di comportamento antisociale, di abuso di sostanze, divorzi e abuso fisico. Da bambini, spesso sono stati trascurati emozionalmente e/o fisicamente abusati. La gente con una personalità antisociale presentano una speranza di vita significativamente più breve rispetto alla popolazione generale. Il disturbo tende a diminuire con l’età.

Personalità Borderline (Cluster B)

Il Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è condizione che genera un significativo livello di instabilità emotiva ed è caratterizzato da una immagine distorta di sé, da sensazioni di inutilità e dall’idea di essere fondamentalmente difettati. Il paziente oscilla rapidamente lungo intensi stati di rabbia, furia, dolore, vergogna, panico, terrore ed un feeling cronico di vuoto e solitudine. Si tratta di individui che si differenziano dagli altri sia per l’elevata impulsività, sia per una intollerabile condizione di dolore ed urgenza. Altra caratteristica è la reattività umorale, contraddistinta da passaggi repentini che possono realizzarsi anche nell’arco di una giornata tra uno stato dell’umore ad un altro, stati disforici e periodi di eutimia.
La sintomatologia cognitiva si caratterizza per la presenza di stati mentali di natura non psicotica, come l’idea pervasiva di essere cattivi, le esperienze di dissociazione (depersonalizzazione e derealizzazione), la sospettosità e le idee di riferimento. Tuttavia, è possibile la comparsa di sintomi quasi-psicotici o psicotici transitori e, a volte, illusioni ed allucinazioni reality-based.
L’impulsività può essere di due tipi: l’autodistruttività (tentativi di suicidio, automutilazioni, tentativi di suicidio) e una forma più generale di impulsività (abuso di sostanze, disturbi alimentazione, scoppi verbali, guida spericolata).
Le relazioni sono intense ed instabili, accompagnate da una pervasiva e violenta paura dell’abbandono, che si esplicita negli strenui tentativi di non rimanere da solo. In questa direzione la qualità “tumultuosa” delle relazioni intime, caratterizzate da frequenti discussioni, ripetute rotture e sentimenti di fiducia/disponibilità/idealizzazione dell’altro che si alternano a vissuti di dipendenza/indegnità/svalutazione cui il paziente reagisce ricorrendo a strategie difensive che alimentano il rischio di una rottura relazionale.

Personalità Evitante (Cluster C)

Gli individui con una personalità evitante sono eccessivamente sensibili al rifiuto e temono di istaurare nuovi rapporti o di esporsi a qualunque nuova attività. Presentano un forte desiderio di affetto e accettazione ma evitano i rapporti intimi e le situazioni sociali per timore di apparire inadeguati o di essere criticati. Diversamente dai soggetti schizoidi, soffrono esplicitamente per il loro isolamento e per l’incapacità di relazionarsi agli altri stando a proprio agio.
Diversamente dai soggetti borderline non rispondono al rifiuto con rabbia; invece, si ritirano e appaiono imbarazzate e timide. La personalità evitante è simile alla fobia sociale generalizzata.

Personalità Dipendente (Cluster C)

Le persone con disturbo dipendente di personalità delegano di solito le decisioni e le responsabilità importanti ad altre persone e consentono alle persone che si occupano di loro di prevaricare i propri bisogni. Presentano una bassa stima di sé e appaiono molto insicure circa la propria capacità di prendersi cura di se stessi. Spesso denunciano una significativa incapacità a prendere decisioni e ritengono di non sapere cosa fare e come farlo.
Questo comportamento è parzialmente dovuto alla loro riluttanza ad esprimere le proprie opinioni per timore di offendere le persone delle quali hanno bisogno e, in parte, alla credenza che le altre sono più capaci di loro. Le persone con altri disturbi di personalità hanno spesso tratti di personalità dipendente, ma le caratteristiche dipendenti sono solitamente celate dai tratti più dominanti dell’altro disturbo. A volte le persone con una malattia prolungata o un handicap fisico sviluppano una personalità dipendente.

Personalità Ossessivo Compulsiva (Cluster C)

Le persone con una personalità ossessivo-compulsiva sono preoccupate circa l’efficienza, il perfezionismo ed il controllo. Esse risultano affidabili, credibili, ordinate e metodiche, ma la loro inflessibilità le rende incapaci di adattarsi ai cambiamenti. A causa della loro prudenza hanno difficoltà prendere decisioni perché temono di aver omesso di considerare tutti i pro e i contro delle opzioni da vagliare. Si assumono seriamente le proprie responsabilità, ma a causa del fatto che non tollerano gli errori o le imperfezioni, hanno spesso difficoltà a completare le attività intraprese. Diversamente dal Disturbo d’Ansia Ossessivo-Compulsivo (si veda la sezione dedicata al Disturbo Ossessivo-Compulsivo), la personalità ossessivo-compulsiva non è caratterizzata da pensieri ossessivi ripetuti e indesiderati e da condotte ritualistiche che il soggetto si sente costretto a compiere.
I soggetti con personalità ossessivo-compulsiva sono spesso uomini d’azione e di successo, in particolare in ambito scientifico o in altri campi intellettuali dove sono richiesti ordine ed attenzione ai particolari. Tuttavia, la loro responsabilità in eccesso li rende così ansiosi che possono godere raramente dei propri successi. Non sono a proprio agio a mostrare i propri sentimenti, nelle relazioni interpersonali e nelle situazioni dove non hanno controllo, devono affidarsi agli altri o che risultano scarsamente prevedibili.


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Difficoltà Relazionali ed Affettive

Le relazioni interpersonali possono apportare grande ricchezza e benessere nella nostra vita, ma talvolta possono essere fonte di intensa sofferenza e disagio. Il concetto di relazione rimanda a quello di comunicazione, quindi, generalmente possiamo affermare che i problemi relazionali riguardano anche il comunicare.
Tutto ciò che accade nei rapporti con gli altri – comprensioni e incomprensioni – viene regolato, infatti, dalla comunicazione. I problemi relazionali nascono e perdurano quando rimaniamo intrappolati in una rete discorsiva che ci blocca in situazioni a volte paradossali. Questo può avvenire in qualsiasi contesto o situazione: nella coppia, in famiglia, nel lavoro, con gli amici, con noi stessi.
Non esiste un modo unico di “leggere” gli eventi, di interpretare le azioni e i gesti. Così una stessa situazione può venire percepita dalle persone in modo molto diverso e questa diversità può creare talvolta disagio e conflitti nelle relazioni interpersonali.
Per realizzare una comunicazione efficace dobbiamo capire come agisce il nostro interlocutore, cosa pensa, come percepisce la realtà; dobbiamo, sostanzialmente, “metterci nei suoi panni”. Da questo punto di vista, la qualità della relazione dipende, in gran parte, dallo sperimentare o meno comunicazioni in cui sentiamo che l’altro tenta di comprendere le nostre intenzioni e, reciprocamente, ci sentiamo interessati a comprendere le sue. Gran parte del lavoro della psicoterapia consiste proprio nel permettere alla persona di sperimentare la possibilità, di sentirsi guardata, spesso per la prima volta, per ciò che sente di essere e di poter guardare, reciprocamente, gli altri secondo i loro significati.
Le difficoltà relazionali possono essere innescate da una moltitudine di situazioni e possono essere fonte di disagio se il problema non viene gestito in modo adeguato. Eventi di vita importanti come la perdita del lavoro o una malattia, problemi sessuali o infedeltà, difficoltà a parlare di quello che si sta vivendo con il partner, possono portare ad un’interruzione della comunicazione e causare significative tensioni tanto da mettere a dura prova il rapporto, fino in alcuni casi, alla rottura. Quando, infatti, si è troppo occupati a gestire le difficoltà della vita quotidiana è più facile ignorarne gli effetti sul rapporto di coppia.

Vediamo quali sono le principali difficoltà in una relazione:

Lavoro: differenze di ambizione e di carriera possono avere un grave impatto nei rapporti. Anche un’improvvisa perdita del lavoro può aggiungere una tensione significativa in qualsiasi rapporto. Perdere il lavoro, infatti, è una delle cose più stressanti che possano accadere nella vita, si perde la principale fonte di reddito, le relazioni quotidiane, la struttura e, spesso, lo scopo della giornata. Alcune persone scelgono di ignorare come si sentono e poi esplodono con sentimenti di rabbia, shock, depressione o frustrazione quando la tensione inizia a sopraffarli. La mancanza di fiducia che ne consegue fa diventare ipersensibile sentendo che non gli viene dato sufficiente supporto o pensando che nessuno possa capire cosa sta vivendo e provando e può portare gli altri a mettersi sulla difensiva.
Infedeltà: I dati circa l’infedeltà coniugale e l’infedeltà sessuale sono sempre più in crescita e sono, a dir poco, impressionanti, alcuni recenti studi hanno dimostrato che circa il 45% delle donne e il 60% degli uomini sposati sono stati infedeli durante la loro relazione. La Nuova Enciclopedia Britannica dice che “l’adulterio sembra essere così universale e comune quanto il matrimonio”. L’infedeltà può variare da un errore di una notte ad un periodo lungo e pianificato. Ciò che è allarmante in queste statistiche, tuttavia, non sono i numeri, bensì, il forte impatto emotivo che l’infedeltà coniugale ha sulla vita delle persone; basti pensare alla ferità che questo tipo di dolore comporta, le notti di insonnia e la confusione mentale, l’ansia e le depressioni coinvolte in queste percentuali. Anche quando tutto è venuto a galla, inoltre, il coniuge può sopravvivere al trauma, ma i danni al matrimonio, probabilmente, non saranno mai del tutto riparati. L’infedeltà non significa per forza la fine del rapporto, ma può avere sicuramente un doloroso impatto a breve e a lungo termine. Indubbiamente ci sono persone che sono infedeli per il brivido e l’eccitazione, ma ci sono altri casi in cui il partner vuole uscire da un rapporto faticoso e non riesce a comunicarlo apertamente. Certo, essere infedele non è il modo migliore per dire al proprio partner che non si è soddisfatti, ma può essere il campanello d’allarme che c’è qualcosa che non va nella relazione e che bisogna prendersene cura.
Crisi di mezza età: la crisi di mezza età è un momento di cambiamento e di riflessione che può colpire sia gli uomini che le donne; le donne sperimentano la menopausa con cambiamenti fisiologici che possono alterare il loro aspetto, la libido e il loro stato emotivo, e gli uomini possono sperimentare una voglia di “tornare a sentirsi giovani”; entrambe queste reazioni possono causare problemi di relazione e nei casi più gravi, la rottura del rapporto. Alcuni possono pensare che parte della loro infelicità nasce da un rapporto stanco, altri hanno vissuto una relazione infelice per il bene dei figli o per motivi finanziari che non sono più rilevanti e decidono che è arrivato il momento di cambiare. Sopravvivere a questa fase comporta una chiara visione delle proprie capacità personali per affrontare il cambiamento e il modo in cui con il partner si affrontano i cambiamenti insieme.
Paura dell’intimità: paura della condizione nella quale potersi mostrare autentici e vulnerabili senza che questo costituisca una minaccia. Intimità: Fiducia e cura reciproche sono le sue caratteristiche, quando c’è, la relazione diventa un rifugio sicuro per la coppia. Si condivide un profondo legame quando c’è un livello di fiducia e una qualità della comunicazione tali da far sentire entrambi sicuri di poter condividere il proprio Sé profondo. L’intimità ci permette di sentirci accettati, rispettati, ammirati dal partner, anche se – o forse proprio perché – lei o lui conoscono i nostri più reconditi timori, fallimenti e crucci. La paura dell’intimità invece svuota la coppia, scava distanza, ed è il più difficile dei nemici, perché per uscirne è necessario il primo passo verso l’autorivelazione, ma questo ci spaventa in modo terribile. Nella coppia può crearsi un problema di distanza emotiva e fisica che accresce i conflitti e le divergenze. La paura di sentirsi intrappolati e soffocati in un rapporto alimenta la distanza e l’evasione. Il baratro della paura dell’intimità si allarga poco per volta e quando te ne accorgi lo shock può essere tremendo. Ma anche la costruzione di una nuova intimità richiede tempo e pazienza, si tratta di ricolmare quell’enorme scavo con una cucchiaiata al giorno. Per fortuna, sia nell’uno che nell’altro caso si tratta di una reazione a catena: mentre si allarga la distanza, i due partner spaventati dall’intimità si sentono sempre peggio, mentre quelli che lavorano per riavvicinarsi nell’intimità si sentono ogni giorno un po’ più felici. Stare lontani dall’intimità per paura di esporsi a rischi terribili vuol dire già cadere nel più grande dei rischi: quello di arrivare alla fine della vita senza aver davvero provato a essere onesti con un altro essere umano.
Paura del cambiamento: “Non sono i più forti della specie che sopravvivono, non i più intelligenti, ma coloro che si adattano meglio al cambiamento” CHARLES DARWIN. Nella vita non ci sono certezze, nè garanzie, ma se c’è una costante che accomuna tutti noi è il cambiamento. Tutto intorno a noi è in continua mutazione: le persone, i sentimenti, i luoghi, la natura. Pur essendo un evento naturale, il cambiamento ci fa paura e a volte facciamo di tutto per evitarlo fino a quando è la vita stessa che ci spinge all’improvviso in situazioni che non avevamo preventivato, lasciandoci spiazzati. Altre volte sentiamo la necessità di un cambiamento in una o più aree della nostra vita, ma non sappiamo bene da dove cominciare. Se veramente vogliamo vivere una vita al meglio delle nostre possibilità, è necessario aprirsi al cambiamento e accoglierlo come un processo naturale che fa parte della nostra evoluzione. In molti casi si fanno i conti con la paura che il partner potrebbe cambiare, o all’inverso con la preoccupazione che potrebbe non farlo mai. È sempre faticoso gestire un cambiamento, a maggior ragione quando questo comporta anche ripercussioni nella coppia e nella famiglia.
Paura dell’abbandono: La paura dell’ abbandono è uno dei timori che spesso affligge gran parte dei pazienti. Rappresenta una delle paure più grandi di cui soffrono molte persone e crea diversi disagi nel momento in cui condiziona la vita affettiva e relazionale della persona. Consiste nel timore di rimanere soli, senza nessuno che possa prendersi cura dell’altro, nell’affrontare in solitudine tutte le diverse prove alle quali la vita ci espone. Si manifesta con la costante e incessante paura di poter perdere la persona con cui si condivide la quotidianità, la persona amata e di conseguenza di rimanere privi di qualsiasi legame affettivo. Queste persone vivono con la costante convinzione che la persona più cara possa lasciarli in qualsiasi momento. Sono talmente ossessionati da questa convinzione che si svegliano in piena notte in preda ad incubi in cui sognano di essere soli, vulnerabili e indifesi, esposti a qualunque rischio, visto che non c’è nessuno pronto a prendersi cura di loro. Il pensiero più profondo è rappresentato dall’estrema convinzione che passeranno la loro vita in totale solitudine. Questa convinzione si traduce e si manifesta nelle relazioni affettive, esasperando le manifestazioni emotive più semplici, mettendo in atto una serie di comportamenti che anziché portare all’avvicinamento della persona amata, inevitabilmente la allontanano. E’ come se si fossero incastrati in una trappola dalla quale non esiste via d’uscita. Alcune persone non vogliono stare da sole, e sono terrorizzate al pensiero di essere respinte o abbandonate. Questo può portarle a vivere situazioni di coppia frustranti pur di non essere lasciate o all’inverso a ricercare continuamente partner diversi che possano colmare il loro bisogno di vicinanza e di attenzione.
Uscire dalla paura: Per uscire da questa paura, una cosa fondamentale da fare è imparare a stare bene da soli, con se stessi; diventare consapevoli del proprio disagio facendo emergere emozioni, sentimenti, pensieri e riflessioni rielaborandoli in modo funzionale e visualizzando sempre una alternativa alla situazione temuta. Solo così facendo è possibile iniziare a costruire una parte di sé nascosta, definita dall’altro. Quando si è soli e si impara a convivere con questa paura, senza utilizzare comportamenti che possano evitare di affrontare la paura stessa, si diventa consapevoli di chi si è e di cosa si vuole dalla vita. Chi ha problemi relazionali manifesta spesso anche bassa autostima e insicurezza, può avere difficoltà a trovare partner adeguati, a gestire relazioni sentimentali e affettive; in questi casi una psicoterapia può essere molto utile per creare una situazione protetta in cui la persona può familiarizzare con le sue paure e imparare a gestirle, sperimentandosi via via nei contesti esterni. Un sostegno psicologico è indicato anche nei casi in cui la comunicazione con il partner sia molto logorata, o perché i conflitti sono molto aspri o perché si protraggono da molto tempo. L’obiettivo principale è quello di ristabilire un clima di fiducia sia personale (nelle proprie competenze, capacità e risorse) sia di coppia, correggendo i comportamenti e gli atteggiamenti disfunzionali e prendendosi cura della relazione, trovando modi costruttivi di confronto. Un aspetto importante sarà riconoscere che c’è un problema, successivamente si potrà capirne la causa e trovare gli strumenti e il sostegno per affrontarla ed andare avanti positivamente.

Il sostegno psicologico nei problemi relazionali: la dipendenza affettiva

L’amore, rappresenta il bisogno e la capacità di trascendere noi stessi e, insieme ad un altro, creare una realtà nuova. Talvolta, quando si altera l’equilibrio tra il dare e il ricevere, tra il proprio confine e lo spazio condiviso, l’amore può trasformarsi, invece che in un’occasione di crescita e arricchimento, in una gabbia senza prospettive di fuga, con pareti fatte di dolore. Questo è quello che succede quando si scivola nella dipendenza affettiva. La dipendenza affettiva è una forma patologica di amore caratterizzata da assenza cronica di reciprocità nella vita affettiva, in cui l’individuo, “donatore d’amore” a senso unco, vede nel legame con un altra persona, spesso problematica o sfuggente, l’unico scopo della propria esistenza e il riempimento dei propri vuoti affettivi.
Non sempre la differenza tra amore e dipendenza affettiva è netta. Può addirittura accadere che i due fenomeni si confondano. La chiave di distinzione sta nel grado di autonomia dell’individuo e nella sua capacità di trovare un senso in se stesso. Diversamente da quanto comunemente si crede, l’amore nasce dall’incontro di due unità, non di due metà. Solo per si percepisce nella sua completezza è possibile donarsi senza annullarsi, senza perdersi nell’altro. Chi è affetto da dipendenza affettiva, non essendo autonomo, non riesce a vivere l’amore nella sua profondità e intimità. La paura dell’abbandono, della separazione, della solitudine generano un costante stato di tensione. La presenza dell’altro non è più una libera scelta ma è vissuta come una questione di vita o di morte: senza l’altro non si ha la percezione di esistere. I propri bisogni e desideri individuali vengono negati e annullati in una relazione simbiotica.
La dipendenza affettiva, diversamente da quanto a volte si manifesta all’evidenza, non è un fenomeno che riguarda una sola persona, ma è una dinamica a due. A volte il partner del “dipendente affettivo” è un soggetto problematico, che maschera la propria dipendenza affettiva con una dipendenza da droga, alcol o gioco d’azzardo. In questo caso i problemi del compagno diventano la giustificazione per dedicarsi interamente all’altro bisognoso, non prendendosi il rischio di condurre un’esistenza per sé. Altre volte la persona amata è rifiutante, sfuggente o irraggiungibile, per esempio sposata o non interessata alla relazione. In entrambi i casi quello che seduce è la lotta: la dipendenza si alimenta del desiderio di essere amati proprio da chi non ci ricambia in modo soddisfacente, e cresce in proporzione al rifiuto, anzi se non ci fosse quest’ultimo, il presunto amore non durerebbe.
La persona che ha una dipendenza affettiva di solito soffoca ogni desiderio e interesse individuale per occuparsi dell’altro ma inevitabilmente viene delusa e il suo amore prende la forma del risentimento. Allo stesso tempo non riesce ad interrompere la relazione, in virtù di ciò che definisce “amare troppo”, non rendendosi conto che questo comportamento distrugge l’amore che richiede invece autonomia e reciprocità.
Nella dipendenza affettiva, ciò che viene sperimentato come amore diventa una droga. I sintomi della dipendenza sono gli stessi:
* ebbrezza: il soggetto prova una sensazione di piacere quando sta con il partner, che non riesce ad ottenere in altri modi e che gli è indispensabile per stare bene;
* tolleranza: il soggetto cerca dosi di tempo sempre maggiori da dedicare al partner, riducendo sempre di più il proprio tempo autonomo e i contatti con l’esterno;
* astinenza: il soggetto sente di esistere solo quando c’è l’altro, la sua mancanza lo getta in uno stato di allarme. Pensare la propria vita senza l’altro è inimmaginabile. L’altro è visto come l’unica fonte di gratificazione, le attività quotidiane sono trascurate, l’unica cosa importante è il tempo trascorso con l’altro;
* incapacità di controllare il proprio comportamento: una riduzione di lucidità e capacità critica che crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta e una ricaduta nella dipendenza, che fa sentire più imminenti di prima i propri bisogni legati all’altro. Questi processi si colorano di rabbia e senso di colpa.
Inoltre, a differenza delle droghe, che sono più facilmente disponibili, si può generare una paura ossessiva di perdere la persona amata, espressa con gelosia e possessività, che si alimenta smisuratamente ad ogni piccolo segnale negativo che si percepisce. La posizione paradossale che caratterizza la dipendenza affettiva è: “non posso stare con te” (per il dolore in seguito a umiliazioni, maltrattamenti, tradimenti) “ne senza di te”, (per l’angoscia al solo pensiero di perderti). La dipendenza affettiva affonda le sue radici nel rapporto con i genitori durante l’infanzia. Le persone dipendenti da bambini hanno ricevuto il messaggio che non erano degni di essere amati o che i loro bisogni non erano importanti. Queste persone di solito provengono da famiglie in cui i bisogni emotivi sono stati trascurati in virtù dei bisogni materiali. La crescita copre la ferita, ma la lascia insanata. Attraverso l’identificazione con il partner le persone dipendenti cercano di salvare se stessi e colmare le proprie carenze affettive.
Nella vita di coppia si riattribuiscono, più o meno inconsapevolmente, un ruolo simile a quello vissuto con i genitori, nel tentativo di cambiare il finale. L’assenza della possibilità di sperimentare una sensazione di sicurezza nell’infanzia genera il bisogno di controllare l’altro, nascosto dietro un’apparente tendenza all’aiuto. Il principale problema nella risoluzione delle dipendenze affettive è l’ammissione di avere un problema. Esistono, infatti dei confini estremamente sottili tra ciò che in una coppia è normale e ciò che diviene dipendenza. La difficoltà nell’individuazione del problema risiede anche nei modelli distorti di amore che possono far ritenere determinati abusi e sacrifici di sé come “normali”.
Spesso, paradossalmente, è la “speranza” che fa sopravvivere il problema e che tende a cronicizzarlo: la speranza in un cambiamento impossibile, soprattutto in un contesto relazionale in cui si sono consolidati dei copioni da cui è difficile uscire. Così, paradossalmente, l’inizio del cambiamento arriva quando si raggiunge il fondo e si sperimenta la disperazione, che rappresenta la possibilità di sotterrare le illusioni che hanno nutrito a lungo il rapporto patologico. E’ questo il momento in cui si è più disposti a chiedere aiuto, e può essere l’occasione per iniziare un percorso psicologico di cambiamento, finalizzato alla costruzione di legami sentimentali più appaganti.


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Lutto

Il lutto è uno stato emotivo inevitabile e necessario nella vita di ognuno di noi, legato prevalentemente alla morte di una persona molto importante. Il lutto si prova anche in occasione di importanti separazioni che riguardano diversi aspetti della nostra vita. Il lutto infatti può essere legato alla morte di una persona, ad un allontanamento dai propri luoghi familiari, alla fine di un impegno importante o di un lavoro, alla fine di una possibilità di cambiamento, alla perdita del proprio ruolo sociale, ad un fallimento personale o lavorativo, alla nascita di un figlio malato, ecc. Superare il lutto è talvolta un’esperienza molto difficile che in taluni casi, può innescare sindromi depressive. Non bisogna però confondere la normale reazione ad un lutto, che presenta manifestazioni molto simili a quelle della depressione, con una vera malattia. Uno stato di depressione è del tutto comprensibile nella fase di elaborazione del lutto, ma se questo persiste e getta la persona in una condizione di angoscia perenne da cui è incapace ad uscire, allora è bene che si affidi ad un aiuto che possa accompagnarlo nel difficile percorso della accettazione e superamento della perdita. Infatti, molte delle problematiche psicologiche che spingono una persona a cercare sostegno si rivelano essere legate proprio alla mancata elaborazione di un lutto – che sia una perdita reale o, simbolicamente, una perdita di qualcosa di fondamentale nella vita di una persona. La Kubler-Ross teorizza cinque fasi attraverso le quali passerebbe obbligatoriamente un individuo, non necessariamente in questa esatta sequenza, a seguito della perdita di una persona cara o dell’annuncio di un’imminente perdita. Negazione della realtà e isolamento: si tratta di un meccanismo di difesa che ci permette di attenuare l’intensa fase iniziale del dolore. E’ una risposta psicologica temporanea.

Rabbia
Quando gli effetti mascheranti della negazione della realtà e dell’isolamento cominciano a svanire, la realtà ed il relativo dolore riappaiono. Ma non si è ancora pronti. L’emozione intensa è deviata dall’oggetto del dolore e riorientata e si esprime come rabbia. Rabbia che si può anche orientare verso il soggetto che ci ha provocato il dolore. A questo si può aggiungere un senso di colpa per essere arrabbiati e questo non fa che alimentare la rabbia stessa. Auto recriminazioni: si incomincia poi una fase in cui si auto recrimina su azioni che si sarebbero potute compiere per evitare o ritardare il lutto. Se ci fossimo rivolti al medico prima, se avessimo richiesto l’intervento di altri specialisti, in altre strutture.

Depressione
Due tipi di depressione sono associati al dolore che provoca un lutto. Una depressione più profonda ed una più legata agli aspetti pratici che il lutto può comportare. La durata di questa fase varia da alcune settimane e sei mesi. Le manifestazioni più tipiche sono umore depresso, sentimenti di tristezza, inappetenza, crisi di pianto, agitazione e scarsa concentrazione. La maggior parte delle persone ha la sensazione che il defunto sia in qualche modo ancora presente.

Accettazione
Dopo la fase di depressione, i sintomi depressivi regrediscono e la persona tenta di tornare alla normalità. La durata di questa fase è variabile e non tutti riescono a raggiungerla.

Questa teoria, assieme ad altre meno conosciute che ugualmente individuano delle fasi di passaggio in cui dovrebbe fluttuare l’individuo, tende a generalizzare un quadro assai complesso che subentra nel caso di lutto. Di fondo vi è il suggerimento – per chi lavora con persone che stanno attraversando un simile momento di difficoltà e per le persone stesse in cerca di conforto e spiegazione – che se ci si blocca o non si attiva una di queste fasi, allora la persona in questione non sta elaborando adeguatamente e va aiutata in questo senso.

Ma, seppure è spesso riscontrabile il passaggio tra queste fasi a seguito della perdita o nel corso dell’annuncio di una perdita imminente di una persona cara, una delle critiche più costanti e, a mio avviso, puntuali degli ultimi anni è proprio quella di non rispettare né le diverse altre culture (che spesso affrontano ed elaborano la morte con tutt’altre modalità), né la specificità dell’individuo stesso, che può non necessariamente passare per una o più di tali fasi, senza per questo riscontare una mancata elaborazione.
Dunque, resta fondamentale accompagnare le persone in un momento così delicato, soprattutto coloro che chiedono aiuto o che sentono di non essere riusciti a passare oltre una perdita importante, con un occhio utile alle teorie ed uno ancora maggiore alle risorse personali della persona e alla sua cultura familiare e sociale, che può portarlo ad accettare ed assimilare la morte in modi del tutto differenti eppure altrettanto funzionali. Non è detto, ad esempio, che “piangere” o “deprimersi” sia un passaggio sempre obbligato, così come spesso accade che non si arrivi mai alla fase di accettazione, senza per questo che il lutto resti irrisolto e che si debba intervenire per paura di conseguenze o intoppi futuri nel benessere psicofisico della persona.


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Ossessioni

Le ossessioni sono idee, pensieri, impulsi o immagini che insorgono improvvisamente nella mente e che vengono percepiti come intrusivi (ovvero la persona ha la sensazione che “irrompano da soli” o che siano indipendenti dal flusso di pensieri che li precede), fastidiosi (ovvero la persona per il contenuto o per la frequenza sperimenta disagio) e privi di senso (ovvero la persona ha la sensazione che siano irrazionali, esagerati o comunque non giustificati o poco legati alla realtà presente). Esempi di ossessioni sono pensieri come “Potrei infettarmi con il virus Hiv se tocco la porta del bagno della discoteca” o “Non devo pensare al nome delle persone a cui voglio bene in ospedale, altrimenti potrebbero ammalarsi”, “Se non controllo che tutti i file siano chiusi, qualcosa di brutto accadrà”, ” Potrei dire qualcosa di brutto senza accorgermene”.
Tali pensieri intrusivi sono ricorrenti (ovvero si ripresentano alla mente con frequenza) e/o persistenti (ovvero occupano la mente in modo duraturo e continuo).
La persona con Disturbo Ossessivo Compulsivo vive con sofferenza e disagio la presenza di questi pensieri. Tale disagio dipende diverse ragioni. Un primo problema è direttamente connesso alla presenza costante e ripetuta nella mente delle ossessioni: gran parte della giornata, è occupata da immagini, pensieri e/o idee che non lasciano tregua e spazio per dedicarsi ad altro e lasciano a fine giornata il soggetto esausto.
La seconda ragione di sofferenza riguarda proprio il contenuto delle ossessioni: le idee e i pensieri ossessivi sono minacciosi e ansiogeni perché riguardano il timore di essere esposti a un pericolo (“potrei infettarmi”, “potrei far danneggiare mia figlia”, “potrebbe esplodere la casa e tutto il palazzo”) e di essere in qualche modo responsabili e colpevoli di tale pericolo, ovvero di rendersi persone immorali, cattive o pericolose (“sarebbe colpa della mia superficialità”, “non ho fatto quando in mio dovere per proteggere i miei famigliari”).
Un’idea ossessiva, però, può essere problematica anche per il fatto stesso di essere stata pensata; ad esempio, il soggetto può essere ossessionato da pensieri erotici o da bestemmie. In questi casi il problema è dato dalla consapevolezza che la propria mente ha prodotto quel pensiero, perché tale consapevolezza implica, nel soggetto, il sospetto di essere una persona immorale o pericolosa (“se ho pensato a questa brutta cosa di mio marito, significa che sono una persona cattiva, un’immorale”).


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Difficoltà scolastiche

Le difficoltà di apprendimento, a qualunque livello, possono rappresentare un problema significativo nella carriera scolastica ed è importante identificarne accuratamente le cause per poter intervenire in maniera precoce ed adeguata. Il “non apprendere” può dipendere da due classi di fattori:
* ambientali/esterni al bambino (arretratezza culturale, scarsa stimolazione, degrado sociale, assenze frequenti, difficoltà linguistiche);
* individuali (deficit visivi e/o uditivi, insufficienza mentale, scarso funzionamento di capacità specifiche come linguaggio, lettura, memoria o attenzione).
Sulla base di questi elementi è dunque possibile identificare due tipi di problematica scolastica: Difficoltà di apprendimento: problematica significativa nel percorso scolastico del bambino, può essere dovuta a svantaggio socio-culturale grave, disturbo di attenzione e/o iperattività, disturbi emotivi (ad es: ansia, depressione, paure), disturbi comportamentali, scolarizzazione insufficiente, oscillazioni “normali” del rendimento scolastico, scarsa motivazione, didattica non adeguata alle caratteristiche del bambino.
Disturbo specifico dell’apprendimento: significativa difficoltà nell’acquisizione e uso di abilità di comprensione del linguaggio orale, espressione linguistica, lettura, scrittura o matematica, è dovuta ad un cattivo funzionamento del sistema nervoso centrale. Per tale ragione questo tipo di disturbi compaiono già nelle primissime fasi di acquisizione di un’abilità scolastica e risultano essere più difficili da trattare. Con questo si intende dire quindi che il termine “Disturbo Specifico dell’Apprendimento” fa riferimento ad una precisa categoria diagnostica e va distinto dalla “difficoltà di apprendimento”, espressione più generica che include tipologie molto diverse di difficoltà che si possono manifestare nell’ambito scolastico.
Nel caso di disturbo specifico dell’apprendimento ci troviamo di fronte a bambini intelligenti, spesso anche molto intelligenti, che per qualche ragione non riescono ad apprendere una o più abilità. Si tratta di difficoltà di causa incerta: non si sa ancora con certezza, infatti, quale sia il ruolo della componente genetica, in che misura possano essere ereditarie e quali siano esattamente le alterazioni presenti a livello di sistema nervoso centrale. Tali difficoltà, tuttavia, fanno parte dell’individuo e accompagnano tutto il suo percorso scolastico.
Ci sono tre grandi gruppi di disturbi specifici dell’apprendimento e sono:
1) disturbi specifici della lettura (riguardano gli aspetti di decifrazione e/o comprensione del testo)
2) disturbi specifici dell’espressione scritta (riguardano gli aspetti grafici, ortografici e di espressione)
3) disturbi specifici del calcolo (che riguardano l’utilizzo dei numeri, le procedure di calcolo e la risoluzione dei problemi)

Normalmente sono gli insegnanti i primi ad accorgersi che il bambino presenta qualche tipo di difficoltà (es: particolare lentezza nel leggere, errori frequenti in lettura o scrittura, difficoltà nel conteggio o nell’esecuzione delle operazioni di base, scarsa comprensione dei testi, cattivo segno grafico ) ed è importante che segnalino tempestivamente il problema alla famiglia in modo da poter attivare controlli appropriati. Normalmente la diagnosi non può essere fatta prima della fine della II classe della scuola primaria per lettura e scrittura e della III per il calcolo, anche se già a partire dall’ultimo anno della scuola materna è possibile l’identificazione di segnali di rischio (es: difficoltà a riconoscere i suoni iniziali delle parole, a giocare con le rime, a contare fino a 10, ecc) sui quali è possibile intervenire con un percorso di potenziamento che permetta di ridurre le lacune del bambino prima dell’ingresso a scuola.

La prima cosa da fare, quando vi è una situazione di difficoltà scolastica persistente e che sembra non migliorare con un aumento dell’aiuto a casa o con delle “ripetizioni”, è rivolgersi ad uno specialista, solitamente uno psicologo che si occupa di età evolutiva e disturbi dell’apprendimento. L’obiettivo sarà quello di fare una prima valutazione dello stato degli apprendimenti del bambino, andando ad identificare le aree di maggiore difficoltà. In un secondo momento, se necessario, verrà effettuata un’indagine più approfondita delle competenze scolastiche emerse come lacunose, per stabilire l’entità del ritardo scolastico presente e giungere ad una diagnosi. Solitamente una valutazione accurata e completa prevede: valutazione del livello di intelligenza, lettura di brano e di parole isolate ad alta voce, lettura di brano con domande di comprensione del testo, prova di matematica (calcolo scritto e mentale, conoscenza dei numeri e delle tabelline), dettato di brano e parole.

Il profilo ottenuto al termine del percorso valutativo ha l’obiettivo di individuare i punti di forza e di debolezza del bambino e di impostare un opportuno percorso di intervento. L’intervento riabilitativo o di potenziamento è possibile per tutte le difficoltà di cui si è finora parlato, anche se avrà obiettivi, tempi e risultati attesi diversi a seconda delle specifiche situazioni. In molti casi vengono utilizzati anche alcuni strumenti di compenso (calcolatrice, scrittura a computer, sintesi vocale), previsti del resto dalle circolari ministeriali, che possono aiutare il bambino nel suo percorso scolastico. Va detto che i disturbi specifici dell’apprendimento sono molto resistenti al trattamento e spesso sono necessari tempi molto lunghi e duro lavoro per ottenere dei risultati in questi casi purtroppo non ci si può aspettare una normalizzazione della situazione ma consistenti miglioramenti sono possibili, soprattutto quando la diagnosi è precoce.


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