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Se una voce dentro di te continua a ripeterti “non sarai mai in grado di dipingere”, allora dedicati alla pittura con tutto te stesso, e vedrai che quella voce sarà messa a tacere. -Vincent Van Gogh

“L’arte di essere felici”

Per me è stato sorprendente scoprire che “L’arte di essere felici” è il titolo di un manoscritto di Arthur Schopenhauer , il filosofo tedesco generalmente lo associavo a una delle sue famosi frasi: “la vita oscilla come un pendolo avanti e indietro, tra dolore e noia”.

Grazie al romanzo di Jalom “ la cura Schopenhauer” ho iniziato ad amare un lato meno noto del filosofo.

Schopenhauer era un pessimista estremo, pensava che vivessimo nel peggiore dei mondi possibili e che la felicità fosse solo un’illusione.

Chi più di lui può aiutarci ad individuare i suggerimenti utili per combattere dolore e noia.. per evitare sofferenze inutili e provare ad essere più felici.. proviamo quindi ad addentrarci nelle 10 regole di Schopenhauer per essere felice qui e ora.

Le chiavi della felicità, secondo Schopenhauer

1. Evita l’invidia e i confronti

Nulla è implacabile o crudele come l’invidia”, disse Schopenhauer.

L’invidia è una delle emozioni più negative che possiamo provare perché ci condanna a uno stato di insoddisfazione permanente, allontanandoci dalla felicità. Confrontarci con gli altri implica dedicare tempo ed energia a un compito infruttuoso in cui quasi sempre perdiamo, perché di solito ci confrontiamo con quelli che pensiamo essere più ricchi, capaci o felici. Pertanto, il primo passo per essere felici è smettere di confrontarci, e capire che l’invidia non ha senso perché siamo tutti diversi.

Dato che è utopico eliminare il confronto possiamo soffermarci sulla diversità qualitativa invece che sul confronto quantitativo, potremmo scoprire che la somma è sempre uguale a zero.

2. Smettila di preoccuparti dei risultati

Schopenhauer disse che prima di intraprendere qualsiasi progetto o prendere una decisione importante, dovremmo riflettere a lungo su di esso ma, una volta fatto il passo, dobbiamo smettere di preoccuparci ossessivamente dei risultati. Il filosofo ci incoraggia a dare il meglio di noi stessi e a rimanere con l’intima soddisfazione di aver fatto del nostro meglio, senza essere troppo ansiosi per i risultati ottenuti, perché spesso non dipendono neppure esclusivamente da noi.

A volte possiamo anche prendere la decisione sbagliata, diamoci il permesso di farlo, questo ci può aiutare a cambiare le cose quando è possibile, e ad accettare serenamente le conseguenze.

C’è sempre un lato positivo nascosto in qualsiasi situazione.

3. Segui il tuo istinto

Schopenhauer pensava che ci fossero persone molto creative e altre più logiche, persone portate all’azione e altre alla contemplazione. Pertanto, uno dei suoi consigli per essere felice è lasciarsi portare dall’istinto e non andare contro la nostra natura.

Per commentare Schopenhauer cito Nietzsche: “Diventa che sei”.

Solo trovando la nostra passione autentica possiamo essere felici.

4. Fai in modo che la tua felicità dipenda solo da te

Schopenhauer incoraggiava l’autosufficienza. Spiegava che se la nostra felicità dipende dagli altri, allora non è nostra. Considerava che “la felicità appartiene a coloro che sono autosufficienti, perché tutte le fonti esterne di felicità e divertimento sono, secondo la loro specie, insicure, difettose, fugaci e soggette al caso”. Per questo motivo, incoraggiava a cercare le ragioni per essere felici dentro di noi, non fuori.

Gli altri e il mondo esterno possono essere una fonte inesauribile di felicità, ma devono essere il valore aggiunto, dobbiamo riconoscerci il potere di poter cambiare il mondo esterno e sentire che ne possiamo fare a meno.

5. Limita i tuoi desideri

Schopenhauer, profondamente influenzato dalla filosofia buddista, pensava che per essere felici dobbiamo limitare i nostri desideri. Pensava che desiderare continuamente ci sprofonda in una spirale di insoddisfazione che ci porta a rincorrere cose che non finiranno mai di soddisfarci, perché genereranno nuovi bisogni e desideri. Pertanto, era profondamente convinto che uno dei segreti per essere felici è desiderare molto meno.

Soddisfare desideri autentici può dare gioia. E’ molto più difficile individuare i propri desideri autentici che soddisfarli; spesso senza esserne consapevoli inseguiamo desideri “contaminati” indotti dalle figure di riferimento o dalla società, questo potrebbe spiegare la mancata soddisfazione.

6. Controlla le tue aspettative

Schopenhauer non solo ci incoraggia a limitare i nostri desideri, ma anche le nostre aspettative, perché queste sono spesso la causa dell’infelicità. Ogni aspettativa che non è soddisfatta è un terreno fertile per la frustrazione. Infatti, egli affermava che “invece di speculare sulle possibilità favorevoli, inventando centinaia di illusioni speranzose, tutte gravide di delusione se non soddisfatte, dovremmo concentrarci su tutte le possibilità avverse, che ci porterebbero a prendere delle precauzioni”. In altre parole, ci incoraggia a sviluppare una visione più realistica che ci permetta di affrontare gli ostacoli, invece di nutrire false aspettative che ci rendono infelici.

Avere aspettative idealizzate o magiche ci porta a frustrazione certa, avere aspettative realistiche ci offre due opzioni, che vengano soddisfatte o che ci sorprendano positivamente.

7. Valuta ciò che hai come se dovessi perderlo domani

Valorizzare ciò che abbiamo: salute, famiglia, amici. Raramente pensiamo a ciò che abbiamo; ma sempre a quello che ci manca”.

Gioire per quello che abbiamo è un modo eccellente per coltivare la felicità.

8. Sii compassionevole con te stesso

Schopenhauer diceva che “la gentilezza è come un cuscino, che anche se non ha nulla dentro, almeno smorza le devastazioni della vita”.

Analizzare i nostri errori può aiutarci ad evitarne altri, a conoscere il nostro funzionamento, i nostri punti di forza e le nostre fragilità. Anche questo però va fatto con gentilezza e comprensione, senza rimproverarci o auto-flagellarci.

Aboliamo il senso di colpa risarcendo il torto fatto.

9. Bilancia l’attenzione tra il presente e il futuro

Schopenhauer pensava che uno squilibrio tra l’attenzione che diamo al presente e quella che diamo al futuro, può far sì che l’uno rovini l’altra. In sostanza, ci esorta a elaborare progetti, ma restando con i piedi per terra, godendoci il qui e ora, senza rinviare la felicità ad un futuro che potrebbe non arrivare mai. La sua idea era che non dovremmo ipotecare la nostra felicità per un obiettivo futuro, ma nemmeno dovremmo essere troppo offuscati da un’avversità presente per pensare che il futuro non ci porterà niente di positivo. La chiave sta nel muoversi con scioltezza nel tempo, per trovare in ogni momento ciò di cui abbiamo bisogno per andare avanti.

10. Intraprendi e impara, sempre

Schopenhauer disse “non c’è vento favorevole per coloro che non sanno in che porto stanno andando”. Pertanto, attribuiva sempre una grande importanza ai piani e ai progetti futuri, che apportano una buona dose di entusiasmo alla vita. Quando restiamo nella nostra zona di confort, senza imparare nulla o progettare nuove sfide, ci spegniamo un poco alla volta ogni giorno. Pertanto, per essere felici, dobbiamo andare avanti continuamente, imparando sempre qualcosa di nuovo e ponendoci nuove sfide che ci consentano di crescere come persone.

La lezione schopenhaueriana ci è fondamentalmente consegnata dal suo capolavoro “Il mondo come volontà e rappresentazione (1819)”: secondo Schopenhauer il mondo che conosciamo è il risultato della nostra personale rappresentazione. Questione di prospettive, punti di vista. Questo significa che la nostra conoscenza dei fenomeni passa attraverso il filtro di una interpretazione del tutto soggettiva: è questo il senso del dire che «non esiste il Sole, ma l’occhio che guarda il Sole». Sotto il velo del pensiero si nasconde la poesia.

Amare i propri figli

I bambini amati diventano adulti che sanno amare

S. Bachrach:

Siamo esseri emotivi che impariamo a pensare, non macchine pensanti che imparano a sentire”.

Le nostre prime esperienze con il mondo segnano il nostro sviluppo emotivo.

Durante l’infanzia, si intreccia una rete che connetterà la nostra mente e il nostro corpo, fattore che determinerà in gran parte lo sviluppo della capacità di provare sentimenti ed amare.

In questo senso, la nostra crescita emotiva dipenderà dai nostri scambi emotivi, che ci insegneranno cosa vedere e cosa non vedere nel mondo emotivo e sociale in cui ci troviamo.

Il campo della nostra infanzia, quindi, ci permette di seminare i semi dell’amore in modo naturale, cosa che permetterà che la capacità di amare ed essere amati cresca in modo sano e ci aiuti a svilupparci.

Se nutriamo i bambini con amore, le paure moriranno di fame

Le dimostrazioni di affetto e tenerezza aumentano l’autostima dei bambini e li aiuta a costruire una personalità emotivamente adattata ed intelligente, ovvero il nostro amore li aiuta a maneggiare le paure che sorgono a seconda dell’età, fomentando un sano grado di sensibilità.

I bambini possiedono una naturale fiducia in se stessi. La persistenza, l’ottimismo, l’automotivazione e l’entusiasmo sono qualità innate, sono gli adulti a minare questa intelligenza emotiva con cui nasciamo tutti.

Renderci conto di questo ci aiuta ad essere coscienti del ruolo così rilevante che ha amare i nostri figli ed educarli al rispetto, all’empatia, all’espressione e comprensione dei sentimenti, al controllo della rabbia, alla capacità di adattamento, alla gentilezza e all’indipendenza.

Cosa possiamo fare per crescere bambini felici e sani?

Tramite l’amore e l’educazione emotiva, fomentiamo certe connessioni neuronali sane, ed otteniamo un’ottimale salute emotiva.

Il fatto che un bambino sia timido per natura, di solito porta gli adulti a concentrarsi su ciò che lo circonda e a proteggerlo eccessivamente, rendendolo ansioso e turbato con il passare del tempo.

Un bambino timido deve imparare a dare un nome alle sue emozioni e ad affrontare ciò che lo turba, non deve sentire che gli tarpiamo le ali perché è vulnerabile.

Un adulto deve mostrarsi empatico senza rafforzare i pianti e le preoccupazioni del bambino, in questo modo gli fornisce nuove sfide socio-emotive che gli permettano di crescere.

Bisogna proteggere la sua salute emotiva tramite lo sviluppo delle sue naturali caratteristiche.

I pilastri di una sana educazione emotiva

1. Aiutare i bambini a parlare delle loro emozioni è un modo per capire se stessi e gli altri, ma le parole rappresentano solo una piccolissima parte, non possiamo limitarci solo alla verbalizzazione, ma dobbiamo anche insegnare loro a capire il significato della postura, delle espressioni facciali, del tono di voce e di qualsiasi tipo di linguaggio corporeo.

2. Da anni si promuove lo sviluppo dell’autostima di un bambino tramite l’elogio e costanti rinforzi, tuttavia, questo può essere dannoso se fatto male. Gli elogi aiuteranno i bambini a sentirsi solo bene con se stessi in relazione a specifici successi e al dominio di nuove attitudini.

3. Lo stress è considerato uno dei grandi nemici dell’infanzia, è un inconveniente con il quale bisogna vivere, proteggerli in eccesso è uno degli errori che possiamo commettere. I bambini devono imparare ad affrontare le naturali difficoltà in modo da sviluppare nuove connessioni neuronali che permettano loro di adattarsi nell’ambiente in cui vivono.

Non possiamo cercare di crescere i figli in un mondo Disney d’innocenza ed ingenuità. Lo stress e l’inquietudine fanno parte del mondo reale e dell’esperienza umana, tanto come l’amore e le attenzioni.

Se cerchiamo di eliminare questi ostacoli, si impedisce di avere l’opportunità di imparare e sviluppare capacità davvero importanti che aiutano ad affrontare ostacoli e delusioni inevitabili nella vita.

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In maniera inconsapevole si può diventare genitori manipolatori.

Genitori manipolatori: confusione tra i bisogni dei figli e i bisogni infantili dei genitori

I genitori dovrebbero essere la fonte di protezione, rassicurazione, accoglienza e amore incondizionato che agiscono per il bene dei figli e favorendone la loro crescita, i genitori devono soddisfare i bisogni dei figli, spingendoli però verso l’acquisizione dell’autonomia.

La coppia genitoriale è composta da due individui distinti, che vivono, agiscono e pensano a seconda del grado di consapevolezza e di maturazione affettiva emotiva che hanno raggiunto.

I genitori sani ed equilibrati che allevano i loro figli amandoli in modo nutriente e responsabile, sono consapevoli dei loro punti di forza e dei loro limiti, sono desiderosi di migliorarsi e di ascoltare i propri figli per garantire loro una vita equilibrata ed emotivamente soddisfacente.

I genitori affetti da problemi psicologici, da nodi esistenziali irrisolti, da dipendenze e da patologie psichiatriche, manifestano ogni giorno nella relazione con i figli il loro disagio sotto forma della manipolazione affettiva.

Essere genitori non implica avere la capacita’ di amare consapevolmente i propri figli; un genitore è colui che genera i figli fisicamente o li adotta ma sono solo le singole persone che attribuiscono un significato autentico a questo ruolo.

Coloro che pur essendo genitori, vivono nella relazione con i figli le loro ferite infantili, si caratterizzano per un alto grado di immaturità che crea un clima emotivamente tossico nella famiglia.

La profonda confusione tra i bisogni dei figli e i bisogni infantili dei genitori che si comportano ancora come bambini con la loro prole, è alla base del processo di manipolazione affettiva che si innesta sul bisogno di accudimento che ogni bambino ha.

Un bambino ha bisogno della presenza e dell’assistenza di almeno un adulto per fare fronte ai propri bisogni, il genitore in quanto adulto deve adeguarsi alle esigenze dei figli e non viceversa.

I bambini hanno bisogno di sentirsi amati, l’amore deve essere manifestato in modo chiaro, non ambiguo, con parole e gesti coerenti tra loro, hanno bisogno di una guida e di protezione, di genitori che mantengono le promesse e danno la possibilità ai figli di esprimere i loro sentimenti negativi e positivi.

Il sentimento più importante che un bambino possa e deve provare è la fiducia in se stesso che affonda le sue basi nell’amore, nell’approvazione dei genitori, nella percezione del proprio corpo e nell’accettazione di sé.

I figli che non si sentono amati, non attribuiscono la mancanza di amore ai genitori ma a se stessi, si sentono in colpa di avere fatto qualcosa che ha portato il genitore ad allontanarsi da loro e si sentiranno inadeguati e non amati.

Pur di ricevere amore un bambino arriva a negare le proprie emozioni, ad adeguarsi a tutti i tipi di richieste dei genitori, riducendosi a mendicare l’amore. Spesso i bambini non amati cercano in ogni modo di rendere felici i genitori, adeguandosi alle loro richieste e modificando il proprio sentire nella speranza di essere riconosciuti, diventando così bambini “adattati”, legati ai genitori solo compiacendoli ed illudendosi attraverso la dipendenza di essere amati.

Questi bambini, molto probabilmente diventeranno adulti che mendicheranno amore e cercheranno l’appagamento emotivo all’esterno, si aspetteranno che i loro bisogni vengano soddisfatti da un’altra persona, nell’attesa di essere continuamente nutriti.

K. Bonatti distingue due tipi di cause all’origine delle ferite emotive di un bambino:

Cause omissive

Si intendono mancanze, assenze, carenza di attenzioni riscontrabili sin dalla nascita, mancanza di cure igieniche che comportano sofferenze e ferite nei bambini. Tra cui: assenza di contatto, calore, carezze, nessun ascolto, poca attenzione, scarso sostegno e nessun riconoscimento del loro valore. Tutto questo crea dei veri “buchi emotivi” che vanno a minare l’autostima del figlio.

Cause commissive

Sono comportamenti di natura violenta sia fisica che psichica. Le violenze psicologiche sono hanno un effetto devastante tanto quanto quelle fisiche. Si denigrano i figli con il sarcasmo, l’ironia, sminuendo i loro obiettivi e sforzi, si puniscono senza coerenza, si fanno paragoni, si riversa su loro la propria insoddisfazione e rabbia.

Tra le cause commissive sono annoverate altri tipi di violenza tra cui le violenze energetiche, quando i bambini non subiscono ne violenza fisica ne psicologica diretta ma vivono in una condizione di terrore costante, minacciati da eventi imprevedibili come quando hanno genitori alcolisti. Sia le cause omissive che quelle commissive sono all’origine della manipolazione affettive e mentali.

Le manipolazioni affettive e mentali sono un tipo di interazioni che hanno lo scopo di influenzare gli altri senza che questi se ne rendano conto. Sono attuate tramite le parole, i comportamenti e gli atteggiamenti, i pensieri e le discussioni” (K. Bonatti).

Nello specifico della relazione genitori-figli la manipolazione è molto facile da mettere in atto perché i bambini sono dipendenti fisicamente ed emotivamente dai genitori ed assorbono tutte le informazioni che provengono da loro senza metterle in discussione ma le considerano una inconfutabile verità anche se contraddetta dai fatti.

Si possono annoverare diverse tipologie di manipolazione:

Manipolazione omissiva: si attualizza attraverso comportamenti omissivi perpetrati dal padre o dalla madre o da entrambi con azioni come il “non dire”o il “non fare” attraverso le quali i genitori conseguono i loro obiettivi svalutativi nei confronti dei figli.

Es.: non coccolare, non ascoltare i figli, interromperli quando parlano, non prendersi cura di se stessi, facendo arrivare ai figli il messaggio che essi non sono così importanti.

Manipolazione commissiva

I genitori mettono in atto tale manipolazione per ottenere un loro tornaconto personale:

Genitori che spingono i figli a sposarsi per avere nipoti, usandoli per dare un senso alla loro vita senza tener conto dei desideri dei figli.

Genitori che inviano messaggi ambigui e ambivalenti ai figli chiedendo due cose opposte, distruggendo così l’autostima dei figli che si sentono incapaci di raggiungere due obiettivi in antitesi.

Genitori che creano rivalità tra i figli, che impediscono il raggiungimento dell’autonomia economica ed affettiva, che criticano le loro scelte del partner.

Manipolazione raffinata

Questo tipo di manipolazione è preceduta da un atteggiamento di generosità e di attenzione per i figli per cui è difficile da riconoscere:

Genitori che garantiscono il benessere ai loro figli pretendono poi che questi li ripaghino soddisfacendo i loro bisogni;

Genitori che confidano ad uno dei figli di essere il preferito il quale poi si sente di non avere il diritto di chiedere altro.

Vittimizzarsi per raggiungere i loro scopi:

Il genitore trascura la propria salute per lamentarsi ed attirare l’attenzione del figlio, chiede aiuto anche per cose che potrebbe fare da solo.

Il vittimismo permette di controllare i figli senza chiedere loro nulla in modo Adulto, diretto, chiedere senza assumersi la responsabilità delle richieste.

Senso di colpa:

E’ il modo principale per controllare i figli e mantenere il potere su di loro facendoli sentire in colpa per qualunque motivo, l’obiettivo ultimo è far si che loro non sentano mai i loro bisogni ma siano sempre sintonizzati su quelli dei genitori.

Manipolazione tramite ricatti affettivi

Tipico esempio di questo tipo di manipolazione è la frase: “se non fai questo mamma o papà non ti vuole più bene”. In questo tipo di manipolazione il genitore si dipinge come un martire e il figlio deve salvarlo in ogni modo per non farlo stare male, compiacendolo completamente e negando i propri bisogni e desideri.

I genitori che adottano questo tipo di manipolazione presentano ai figli il conto di quanto hanno dato loro, per cui i figli sentono che non hanno ricevuto dai genitori in modo incondizionato e si adeguano alla richiesta di restituire quello che hanno ricevuto.

Es. la madre non ha abortito per cui il figlio deve essere grato;

la madre si è sacrificata per cui i figli devono starle vicino;

il padre è infelice per cui i figli devono rendergli la vita più vivibile.

Quando la manipolazione è attuata con un figlio piccolo, questi non sapendo cosa significhi “essere cattivo” ma lo apprende in base al significato che i genitori attribuiscono a questa affermazione, congela le proprie emozioni e si adegua completamente al volere genitoriale per non perdere l’oggetto d’amore.

Quando la manipolazione avviene con i figli adulti, questi a causa del ricatto emotivo, non riescono ad esprimere la rabbia verso i genitori per paura di far loro del male.

Tali dinamiche rimangono sempre uguali anche quando i figli diventano adulti, perché la paura della perdita ha congelato le emozioni al periodo in cui sono avvenute le manipolazioni, per cui le reazioni che gli adulti mettono in atto sono le stesse che adottavano quando erano piccoli.

Valutare un percorso di psicoterapia.

Sempre più spesso, mi arrivano persone che hanno già “tentato” percorsi di psicoterapia, oppure persone che mi raccontano dei percorsi fallimentari di amici e parenti, ma anche persone che mai avrebbero pensato di fare una psicoterapia ma che “scoprendo” che i cambiamenti di un amico piuttosto che di un parente sono la conseguenza di un “buon” percorso si decidono a “provare”, qualcosa che è sempre stato nei propri desideri ma di cui erano spaventati a causa di pregiudizi e scarsa informazione.

L’idea di scrivere questo articolo mi è nata dal libro di Jalom che sto leggendo in questo momento: “Sul lettino di Freud”, dove tra i vari argomenti si fa riferimento a storie di “cattiva psicoterapia”: interpretazioni superficiali, consigli avventati e non richiesti, trattamenti che peggiorano la situazione di sofferenza della persona.

L’intervento dello psicologo si basa per lo più sul colloquio, il suo operato è piuttosto impalpabile e difficile da valutare. Per questo motivo vorrei esplicitare la mia opinione al riguardo maturata in base alla mia personale esperienza professionale, distinguendo i criteri personali, soggettivi e discutibili, dai criteri del Codice Deontologico degli Psicologi.

Durante il percorso di psicoterapia può capitare che il paziente sviluppi un avversione per il proprio psicoterapeuta. Questo però non significa automaticamente che lo psicoterapeuta sia incompetente o che la terapia non stia proseguendo nella giusta direzione. Talvolta infatti il paziente rivive col proprio psicoterapeuta i sentimenti negativi che aveva da bambino, specie in relazione con i propri genitori. In questi casi si parla di transfert, concetto introdotto da Sigmund Freud, e che consiste nell’agire con lo psicoterapeuta quegli stessi sentimenti di ostilità (ma talvolta anche di amore) che la persona ha sviluppato con figure di riferimento significative, (spesso i genitori). Tali sentimenti sono spesso ciò che ha condotto il paziente in terapia e rappresentano ciò che il paziente ha bisogno di cambiare per stare meglio. In questi casi, quindi, non bisogna abbandonare prematuramente il percorso di psicoterapia ma affrontare il “trasfert” assieme allo psicoterapeuta in modo da trarne i relativi apprendimenti. E’ importante non scambiare un comune “transfert” per un segno di “cattiva psicoterapia”.

La mia opinione al riguardo maturata in base alla mia personale esperienza professionale:

Lo psicoterapeuta effettua interventi di psicoterapia individuale con persone che hanno tra loro importanti rapporti di natura personale.

Spesso ho sentito di colleghi che vedono in terapia individualmente due coniugi, oppure madre e figlio, o due fratelli. Non condivido l’operato di questi colleghi perché così facendo si riduce la possibilità di una o di entrambe le persone di esprimersi liberamente e autenticamente, il rapporto con lo psicoterapeuta rischia fortemente di non essere più naturale e fluido.

Prendere in psicoterapia due persone legate da un importante rapporto di carattere personale significa, a mio avviso, mettere a rischio la possibilità di apertura autentica del paziente e quindi l’esistenza stessa della situazione psicoterapeutica che si basa sull’autenticità del rapporto terapeuta-paziente.

Alcuni colleghi giustificano la psicoterapia individuale con due persone legate da un forte legame personale con il fatto che in tal modo hanno la possibilità di raccogliere più velocemente una maggiore quantità di informazioni riguardanti le persone. Anche se ciò fosse vero, questo avverrebbe al costo di corrompere il rapporto di apertura con il terapeuta. Quello che di norma avviene in queste situazioni, infatti, è che una delle due persone finisce per sentirsi inibita ad aprirsi con il terapeuta.

La psicoterapia è una situazione molto particolare e difficile, che richiede impegno, energie, tempo e denaro. Meglio non rischiare di complicare ulteriormente la situazione psicoterapeutica perché da “difficile” potrebbe diventare “impossibile”.

Lo psicoterapeuta dà consigli avventati.

Mi capita spesso, e ne rimango sempre sconcertato, di udire storie da parte di persone che hanno ricevuto consigli sconsiderati da parte di colleghi psicologi, magari al loro primo (e per fortuna spesso unico) incontro.

Esempio: lo psicoterapeuta durante il primo incontro fornisce consigli al paziente circa la sua vita di coppia, il lavoro, l’assunzione di psicofarmaci, l’uscita dalla casa dei genitori: “Lascia tuo marito e vai via con i figli”, oppure “Hai bisogno di consultare uno psichiatra per cominciare ad assumere una terapia psicofarmacologica”. Se vi capita di ricevere un consiglio avventato da parte di uno psicoterapeuta al primo incontro, il mio consiglio è di scappare il più presto possibile!

A questo proposito vorrei fare una specificazione, dove a volte i pazienti rielaborano quello che succede in seduta e lo modificano inconsapevolmente. A me è capitato che qualche paziente mi dicesse:” ho fatto quello che mi aveva detto lei”, io sono sicura di non avergli detto, probabilmente in una riformulazione o una sottolineatura ho detto qualcosa che il paziente vive come consiglio, quindi quando un paziente dice “il mio psicologo mi ha detto..” va sempre preso con la dovuta cautela..

Lo psicoterapeuta non è in grado di spiegare in che modo il processo di psicoterapia aiuterà la persona a raggiungere i proprio obiettivi.

Vi sono degli psicoterapeuti che, troppo legati ad una specifica tecnica, si limitano ad applicarla senza distinguere ciò che sanno fare da ciò che è utile.

Esempio: lo psicoterapeuta, esperto di training autogeno, applica questa medesima tecnica a tutti i suoi pazienti a prescindere dalla problematica che presentano.

Lo psicoterapeuta critica e colpevolizza il paziente.

Affinché le persone cambino hanno bisogno di esplorarsi e comprendere le ragioni profonde dei propri blocchi, dei propri conflitti e comportamenti disfunzionali. A questo scopo è fondamentale lo spazio di non-giudizio che lo psicoterapeuta capace riesce a creare durante le sedute.

Esempio: lo psicoterapeuta critica aspramente il paziente che non ha fatto i “compiti a casa”.
Esempio: lo psicoterapeuta colpevolizza il paziente per la sua tossicodipendenza.

Lo psicoterapeuta biasima la famiglia, gli amici o il partner del paziente.

Una delle funzioni dello psicoterapeuta è funzionare da “specchio limpido” per il paziente, in modo che questi possa cogliere degli aspetti di sé di cui non è normalmente consapevole. Rispecchiando il paziente lo psicoterapeuta cerca di aiutarlo a divenire maggiormente consapevole dei propri sentimenti, dei propri meccanismi inconsapevoli e delle proprie responsabilità. Nel fare questo può dover sottolineare anche le responsabilità delle persone vicine al paziente, ma sempre con lo scopo di permettere al paziente di cogliere a propria volta le proprie responsabilità. E’ invece dannoso far passare il paziente da vittima attribuendo completamente agli altri la responsabilità delle sue sofferenze. In ogni caso non è utile per la sua evoluzione.

Esempio: lo psicoterapeuta attribuisce le “colpe” del fallimento matrimoniale interamente al partner del paziente.

Esempio: lo psicoterapeuta sostiene la visione vittimistica che il paziente ha di se stesso sottolineando solo le mancanze dei genitori senza dare rilievo alle risorse e alle potenzialità della persona.

Lo psicoterapeuta parla eccessivamente (di sé) senza che ciò abbia uno scopo terapeutico.
Talvolta lo psicoterapeuta rende note al paziente alcune informazioni su di sé. Dal momento che la situazione tipica di una terapia prevede che l’attenzione sia focalizzata sul paziente e i suoi bisogni, quando il terapeuta parla di sé lo deve fare unicamente se ciò aiuta il paziente a raggiungere i propri obiettivi. “L’apertura di sé” è una tecnica terapeutica ben precisa di cui non si deve abusare. Lo psicoterapeuta può essere amichevole ma non è un amico!

Esempio: lo psicoterapeuta parla delle proprie relazioni affettive senza che ciò sia pertinente con la terapia.

Esempio: lo psicoterapeuta parla troppo spesso occupando quasi tutto il tempo della terapia e lasciando poco spazio al paziente per esprimersi.

Lo psicoterapeuta non parla per niente.

Esempio: il paziente parla per tutta la seduta e lo psicoterapeuta non gli fornisce alcun feed-back.
Lo psicoterapeuta non ha effettuato una terapia personale.

Un terapeuta non ha solo bisogno di conoscere determinate teorie sull’uomo e determinate tecniche di intervento psicoterapeutico. Ha bisogno anche di saper mantenere il proprio equilibrio interiore e la propria lucidità allorché il paziente lo attacca personalmente, oppure porta dei contenuti molto drammatici in terapia, oppure quando lo psicoterapeuta ha dei problemi personali (lutti, incidenti, etc.) o è molto stanco. A questo scopo è, per me, essenziale che abbia compiuto un buon lavoro di psicoterapia su di sé.

Esempio: lo psicoterapeuta svela al paziente di non aver completato un percorso di psicoterapia personale.

Lo psicoterapeuta non ricorda importanti informazioni del paziente.

A tutti capita di avere delle dimenticanze, ma se uno psicoterapeuta stabilmente non ricorda dei fatti importanti narrati durante le sedute dal paziente, forse vuol dire che ha troppi pazienti.
Esempio: lo psicoterapeuta non ricorda il nome del paziente.

Lo psicoterapeuta non presta attenzione al paziente.

L’attenzione dello psicoterapeuta nei confronti del paziente è la prima e fondamentale condizione di una psicoterapia.

Esempio: lo psicoterapeuta controlla frequentemente il proprio cellulare durante la seduta.
Esempio: lo psicoterapeuta risponde al telefono durante la seduta.

Esempio: lo psicoterapeuta regolarmente si distrae e mostra di non capire cosa ha detto il paziente.

Che fare se si scorgono uno o più segni di “cattiva psicoterapia”

Prima di abbandonare la terapia occorre porsi la questione se la sensazione di sgradevolezza che si sta vivendo in terapia non abbia a che fare con i propri meccanismi problematici ossia, come dicevo, sia una questione di ”transfert”.

A questo scopo, è utile affrontare le proprie preoccupazioni direttamente con il proprio terapeuta.

Vi è inoltre la possibilità che lo psicoterapeuta abbia fatto un errore. In questo caso è opportuno parlarne con lo psicoterapeuta: talvolta un errore può essere riparato se la persona che lo ha commesso (in questo caso il terapeuta) è capace di assumersene la responsabilità e di rassicurare l’altro sul fatto che tale errore non verrà nuovamente commesso.

Uno psicoterapeuta di solito è formato per accogliere i timori e i dubbi del paziente circa il percorso terapeutico e sarà disposto ad affrontare l’argomento ascoltando il punto di vista del paziente e fornendo risposte ragionevoli e convincenti.

Se ciò non dovesse essere il caso, se lo psicoterapeuta non fosse disponibile ad affrontare le preoccupazioni del paziente circa la bontà della terapia, potrebbe essere utile incontrare un altro psicoterapeuta per chiedere un secondo parere.

Se dopo aver parlato col proprio psicoterapeuta, o aver ricevuto un secondo parere, diviene chiaro che si è di fronte ad un caso di “cattiva psicoterapia” è opportuno chiudere il percorso terapeutico e mettersi alla ricerca dello psicoterapeuta giusto per sé.

Il mio consiglio è di parlare chiaro col proprio psicoterapeuta e dirgli chiaramente che non si vuole continuare la terapia con lui e i motivi per cui si è presi una simile decisione. Nel fare questo è opportuno ricordare che lo psicoterapeuta è un professionista che ha seguito, si spera, un percorso di psicoterapia personale e che, in ogni caso, è stato addestrato a gestire i propri sentimenti negativi auto-sostenendosi nel caso si senta toccato dalle parole del paziente. Non si deve quindi temere di ferire lo psicoterapeuta, anzi esprimersi in modo autentico spesso rappresenterà un occasione di crescita sia per il paziente sia per lo specialista.

Codice Deontologico (C.D.) degli Psicologi italiani

Il Codice Deontologico è quel testo che raccoglie le regole comportamentali che gli psicologi stessi si sono date. Queste regole sono state pensate con lo scopo di salvaguardare la dignità e la salute delle persone che sono trattate dagli psicologi.

Gli psicologi, se vogliono appartenere a questa categoria professionale, si impegnano a seguire tali regole, pena provvedimenti di diversa intensità, che vanno dall’ammonizione, alla sospensione, fino alla radiazione dall’albo professionale, caso in cui lo psicologo non potrà più esercitare la professione.
Le regole del Codice Deontologico degli Psicologi vincolano anche la maggioranza degli Psicoterapeuti poiché in Italia la maggioranza degli psicoterapeuti è di formazione psicologica.

Cito alcune regole del C.D. che lo psicologo deve seguire:

  • “evitare l’uso non appropriato della propria influenza, ossia evitare tutti i casi in cui la propria influenza non sia finalizzata a promuovere il “benessere psicologico dell’individuo”;

  • “lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni”;

  • “obbligo di formazione continua..”;

  • “mantenere il segreto professionale”;

  • “commistioni tra vita professionale e vita privata dello psicologo”.

Da queste e altre regole del Codice Deontologico, possiamo dedurre alcuni segni di “cattiva psicoterapia”:

Lo psicoterapeuta usa la propria influenza per modificare le convinzioni politiche del paziente.
Lo psicoterapeuta cerca di modificare il credo religioso del paziente.

Il paziente è mantenuto in una situazione di dipendenza: il percorso terapeutico non volge verso il raggiungimento di un obiettivo condiviso, ma procede “ad oltranza” senza una direzione condivisa. Lo psicoterapeuta soddisfa i bisogni emotivi e affettivi del paziente lodandolo e sostenendolo, ma non lo aiuta a sviluppare le capacità per soddisfare tali bisogni autonomamente al di fuori della terapia.

Lo psicoterapeuta cerca di imporre i propri valori sul paziente.

Lo psicoterapeuta non rispetta la privacy del paziente divulgando ad altri che ha in trattamento una determinata persona senza che ciò abbia una funzione terapeutica; (diverso è il caso in cui lo psicoterapeuta condivide alcune informazioni con dei colleghi al fine di ottimizzare il proprio intervento, e comunque sempre mantenendo, per quanto possibile, l’anonimato della persona).

Lo psicoterapeuta opera delle discriminazioni in base alla religione, all’etnia, alla nazionalità, all’estrazione sociale, allo stato socio-economico, al sesso, all’orientamento sessuale, o alla condizione di disabilità del paziente.

Lo psicoterapeuta non è preparato e aggiornato professionalmente.

Lo psicoterapeuta non deve mischiare vita professionale e vita privata se ciò può interferire con l’attività professionale per es. effettuando un percorso di psicoterapia con il proprio dentista, o incontrando il paziente in contesti diversi dalla psicoterapia, come ad esempio al teatro o al cinema.

Lo psicoterapeuta non deve “effettuare interventi di psicoterapia con persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale”, né effettuando un percorso di psicoterapia con una persona con cui è legato da una profonda amicizia o da un legame sentimentale, quantomeno instaurando un rapporto sentimentale nel corso della psicoterapia.

Perché dovremmo andare tutti dallo psicologo?

Perché dovremmo andare tutti dallo psicologo?

La psicoterapia è un ottimo strumento per affrontare i nostri problemi da un altro punto di vista. Gli amici possono darci consigli, ma spesso non corrispondono esattamente a quello di cui abbiamo bisogno. È allora che entra in scena lo psicologo.

La società sta finalmente iniziando a capire che la psicoterapia non è una “cosa da pazzi”, bensì che un numero sempre maggiore di persone cerca in essa un contributo che non sono capaci di trovare altrove.

Per chiedere aiuto ad uno psicologo, non è necessario essere “pazzo” o “fuori di testa”. Al giorno d’oggi è molto comune andare in terapia persino per migliorare e conoscersi meglio. La psicoterapia per molti è divenuta uno spazio nel quale esplorare le proprie luci e le proprie ombre ed imparare da esse. Non si tratta di ricevere consigli da qualcuno che non ci conosce, bensì di imparare a vedere i nostri problemi da un’altra prospettiva.

Idee errate sulla psicoterapia

Molte persone continuano a pensare che dallo psicologo ci si debba sdraiare su un divano in cerca di traumi infantili che possano spiegare i sentimenti attuali. Altre pensano che il terapeuta sia una persona che risolverà i conflitti del paziente o del cliente senza che questi debba fare alcuno sforzo. Vi sono anche persone che pensano tutto il contrario, ovvero che lo psicologo sia un agente passivo della terapia che si limita ad ascoltare.

Tutte queste sono idee errate su come si svolge al giorno d’oggi una seduta di psicoterapia. L’immagine del divano appartiene al mondo della psicoanalisi, ma attualmente non tutti gli psicoanalisti ne hanno uno. In questo senso potremmo dire che, soprattutto in Europa, l’evoluzione della psicologia ha bandito i divani rendendoli un’eccezione e non la regola.

Gli psicologi non danno risposte, aiutano a trovarle, alcuni porranno persino domande a cui non avevamo mai pensato e che possono essere rilevanti per il problema.

Perché fa bene andare dallo psicologo?

La psicoterapia non è riservata solo alle persone affette da patologie mentali. È un’ottima risorsa per tutti, perché nessuno è invincibile e a volte abbiamo bisogno di punti di vista esterni che arricchiscano il nostro. Non siamo nemmeno perfetti, dunque è facile commettere errori che dovremmo analizzare per evitare di ripeterli.

“Spesso si dice che questa o quella persona non ha ancora trovato il vero Io. Ma il vero Io non è qualcosa che si trova. È qualcosa che si crea.” -Thomas Szasz-

Andare dallo psicologo è necessario per molte persone. Per altre, non è obbligatorio, certo, ma di sicuro gioverà alla loro salute mentale ed emotiva. La vita ci presenta situazioni, traumi e momenti difficili che non siamo costretti a saper gestire da soli. In questo senso, la psicoterapia si offre come risorsa per aiutarci.

Motivi per i quali la psicoterapia può aiutarci

È interessante analizzare i diversi motivi per i quali la psicoterapia è una buona risorsa per qualsiasi persona in determinati momenti della sua vita, che non devono per forza implicare tristezza o ansia. Iniziamo!

  • Allevia la sofferenza offrendo nuovi occhiali con cui guardare il mondo.

La psicoterapia ci insegna strategie per ridurre il nostro malessere e la nostra angoscia. Per di più, non ne allevia solo i sintomi, ma aiuta a comprendere come siano arrivati nella nostra vita e perché persistono. Ad esempio, non ci aiuterà solo a ridurre l’ansia che proviamo, ma anche a capire perché è giunta in un determinato momento della nostra vita, in modo da osservare quello che ci succede da un altro punto di vista.

  • Protegge la salute emotiva per comprendere meglio le nostre emozioni.

Il processo psicoterapeutico è una buona risorsa per migliorare la nostra intelligenza emotiva. Approfondisce le nostra paure ed emozioni represse per portarle alla luce e iniziare ad esprimerle. In questo modo, non rappresenteranno più un problema.

Ad esempio, se avete paura di rimanere soli, può essere utile condividere questa paura per poterla gestire in un altro modo con l’aiuto dello psicologo.

  • Invita ad uscire dalla zona di comfort.

Quello che conosciamo già non sempre rappresenta il meglio per noi. È per questo motivo che una buona psicoterapia può aiutare ad esplorare le zone sconosciute e a maneggiare l’incertezza con più calma. Ad esempio, immaginate di soffrire perché non avete amici, ma non fate nulla per rimediare a questa situazione. Imparare ad aprirvi e ad esprimervi con lo psicologo vi sarà molto utile per realizzare, in seguito, nuove attività che vi permetteranno di conoscere gente nuova.

  • Aiuta a prendere le distanze dai problemi e a vederli da una prospettiva migliore.

Quando siamo immersi nei nostri problemi, molte volte è difficile trovare una soluzione. In questo senso, lo psicologo può aiutarci ad ampliare il nostro ventaglio di opzioni e anche a capire perché alcune idee, pur essendo valide secondo un ragionamento logico, suscitano in noi un rifiuto.

Ad esempio, se avete un problema con un parente, mettersi nei suoi panni durante la sessione di psicoterapia grazie a un role-play, vi permetterà di capire meglio il conflitto.

  • Ci permette di conoscere meglio i nostri diversi aspetti.

Non ci conosciamo mai del tutto, vi sono sempre aspetti di noi stessi da esplorare e comprendere. A volte rifiutiamo, consapevolmente, alcuni nostri modi di essere e agire.

Ad esempio, durante la seduta, possiamo capire quali aspetti di noi non accettiamo e iniziare a riconciliarci con essi.

  • Schiarisce la mente e ci permette di vedere le cose importanti della vita.

Spesso ci lasciamo offuscare così tanto da quello che non va per il verso giusto da dimenticare di dare valore alle cose davvero importanti, di godere del nostro presente, dei nostri affetti e delle persone a noi care. Ad esempio, possiamo immergerci così tanto nel lavoro da trascurare il nostro rapporto di coppia. La psicoterapia ci aiuta a relativizzare i problemi e a valorizzare gli elementi davvero importanti.

  • Favorisce l’autoconoscenza e l’atteggiamento compassionevole.

Addentrarsi in un processo di autoconoscenza ci permette di prendere coscienza di molti pensieri, emozioni e atteggiamenti che ignoravamo. A volte, ad esempio, ci trattiamo male senza rendercene conto; la psicoterapia ci aiuta a fomentare l’autocompassione, la pazienza e ad essere più comprensivi con noi stessi.

  • Rafforzare la propria salute mentale per prevenire possibili crolli emotivi.

La psicoterapia è un’ottima risorsa per rafforzare l’autostima e recuperare la sintonia con la nostra anima che spesso perdiamo nella voragine dello stress giornaliero. D’altro canto, a nostra disposizione abbiamo già numerosi strumenti per affrontare il problema, la psicoterapia ci aiuterà solo ad esserne consapevoli e a scegliere il più adatto in ogni momento.

Ricordate che scegliamo noi il nostro destino e, sempre noi, impugniamo il timone con cui dirigere la nave. Possiamo imparare a tenerla a galla oppure a navigare mentre gioiamo del processo. Non abbiate timore di chiedere aiuto, non vi renderà più deboli, tutto il contrario.

Non è mai tardi per scoprire i benefici della psicoterapia e iniziare a godere delle nostre giornate senza tanta oppressione né mal di testa. La psicoterapia è indicata a tutti, perché siamo umani, passiamo tutti periodi difficili e non sempre sappiamo risolverli da soli. Condividere il nostro malessere e trarre beneficio da un trattamento psicologico può essere una grande decisione, a lungo andare la nostra salute mentale ci ringrazierà.

Oggi parliamo d’amore..

Che si tratti di una cotta estiva, di una relazione appena iniziata o di un rapporto consolidato e duraturo, le persone tendono a parlare indistintamente di “amore”. Ma cos’è l’amore?
In molti hanno provato a descrivere cosa avviene quando ci si innamora, proviamo a partire dall’aspetto più scientifico della questione.
La capacità umana di riconoscimento personale ha prodotto due attitudini specie-specifiche dell’essere umano: l’empatia e l’amore.

Gli studi di Giacomo Rizzolatti sui “neuroni specchio” permettono di spiegare fisiologicamente la nostra capacità di porci in relazione con gli altri. Si attivano non solo quando compiamo un determinato comportamento ma anche quando osserviamo gli altri compierlo.
Nell’uomo l’empatia è una capacità più sviluppata che in qualunque altra specie, questo determina una maggiore attitudine all’amore.

Il nostro sistema nervoso centrale è un circuito a feedback che riceve stabilità ed è regolato da relazioni d’amore: in una relazione amorosa, attraverso lo scambio sincronico delle emozioni, ognuno regola la fisiologia dell’altro e modifica la struttura interna del sistema nervoso centrale.Il legame di coppia rimodella l’architettura del cervello: negli innamorati ad esempio, così come nelle donne in gravidanza, i neuroni diventano più grandi così da consentire una maggior comprensione degli stati emotivi dell’altro. Negli innamorati si attivano neuroni specchio di fronte alle emozioni del partner in aree del cervello simili a quelle in cui si attivano i neuroni delle madri di fronte alle emozioni dei figli.

Siamo macchine perfette pensate per amare e avere relazioni sociali.

La chimica dell’amore: in quale fase ti trovi?

Per capire cosa accade, bisogna comprendere che quel che genericamente definiamo col termine di “amore” è in realtà il frutto di differenti fasi che un rapporto attraversa, a partire dal corteggiamento. Gli studi neurofisiologici hanno confermato che nelle prime fasi del processo amoroso, nella fase del corteggiamento, vi sono esperienze uniche riconducibili a particolari neurotrasmettitori.

Ecco dunque che mentre chiacchieriamo e sorridiamo durante il nostro primo incontro con il nostro corteggiatore, se lui ci piace, il nostro mesencefalo – l’area cerebrale che controlla i riflessi visivi e uditivi – inizia a rilasciare dopamina, un neurotrasmettitore che produce piacere ed euforia. E così, mentre iniziamo a sentire quella piacevole sensazione di appagamento, l’ipotalamo comanda al nostro corpo di inviare segnali di attrazione e di piacere.

Dopo il primo incontro..

Col proseguire del rapporto il desiderio e l’eccitazione aumentano così come i livelli di dopamina. L’effetto è quello di voler passare più tempo possibile insieme alla persona, nella quale si cerca di individuare quelle caratteristiche che possono farla diventare “il partner della nostra vita”. Si sceglie qualcuno nel quale si individua la disponibilità a funzionare poi come colui che può proteggere, confortare, colui che può diventare un buon genitore per i nostri figli.

Se la persona è quella giusta, via via che il rapporto si approfondisce, incontro dopo incontro, si passa all’innamoramento. In questa fase si ha l’innalzamento dell’eccitazione mediato dall’aumento di altri due neurotrasmettitori legati alla dopamina, come la noradrenalina e la feniletilamina, che provocano insonnia, riduzione dell’appetito, quel senso di energia sconfinata che fa sentire invincibili. In questa fase emergono però progressivamente anche comportamenti che hanno un effetto calmante: si parla al proprio partner con il “baby-talk” dandosi nomignoli, ci si rapporta a lui con tenerezza e i comportamenti sembrano svolgersi all’unisono.

L’ipotalamo nel frattempo stimola la produzione di ossitocina, normalmente nota come “ormone dell’amore”. Avete presente quella meravigliosa sensazione che si prova quando si sente forte piacere nello stare con la persona amata? quella spinta incredibile a prenderci cura dell’altro?

Il suo agire infatti coinvolge tutte le funzioni proprie dell’amore: viene rilasciata durante l’orgasmo così come durante il parto e l’allattamento, facilitando la creazione ed il mantenimento di legami emozionali tra i partner e con la prole; la sua secrezione è stimolata meccanicamente da ogni stimolo attuato sugli organi sessuali e sul seno, ma anche dalla vista, la voce e persino il pensiero dell’oggetto di amore. L’ossitocina produce dunque un forte senso di gratificazione emotiva e piacere fisico, che stimola sentimenti di tenerezza e calore, favorendo il mantenimento del legame amoroso e l’accudimento.

Durante l’orgasmo non viene rilasciata solo ossitocina, ma anche vasopressina, ovvero un neurotrasmettitore che non dà solo una sensazione di calma e appagamento, ma è anche collegato alla memoria e dà il senso della “territorialità”. La gelosia che si prova nei confronti del partner infatti è dovuta a questi due ormoni e in particolare alla vasopressina, che spinge alla fedeltà e alla monogamia.
Entrambi gli ormoni vengono rilasciati in seguito all’attività sessuale che, non a caso, nelle prime fasi del rapporto, soprattutto in quella definita come “fase del corteggiamento e dell’innamoramento”, è molto frequente.

E dopo l’orgasmo..

E’ a questo punto che c’è il rilascio di endorfine e si prova piacere a coccolarsi e a stare vicini. Accade così che il contatto fisico favorisce il legame sentimentale e viceversa, in una spirale virtuosa che rinsalda il legame stesso.
E’ in questa fase che si cerca di verificare fino a che punto quel partner sarà adeguato per noi e si porrà come il nostro “rifugio” in caso di bisogno: è in grado di supportarci se stiamo male? è in grado di capire le nostre necessità emotive? La maggior parte delle coppie sta insieme più per questa sensazione che i due partner si danno vicendevolmente che per altro, la sensazione di “esserci” in caso di necessità, di saper capire le emozioni dell’altro.

Dopo un periodo che oscilla dai 18 ai 30 mesi dall’inizio della relazione però, il cervello si è assuefatto alle fenilanfetamine e inizia a non reagire più come prima, iniziando a produrre endorfine dalle quali deriva una sorta di “condizionamento dal partner“: il partner è colui che toglie la tensione, che ci fa sentire tranquilli e ci fa sentire “al sicuro”. Ecco che possiamo dunque considerare finita la fase dell’innamoramento e iniziata la fase di amore vero e proprio.

L’innamoramento non è però solo un insieme di emozioni, di sensazioni, di percezioni, di impulsi come appare dagli studi neurofisiologici, ma un complesso processo in cui due individui entrano in relazione, si trasformano e creano una nuova società e un nuovo progetto di vita.

tipi di amore sternberg

Bisogna essere in due per ballare il tango”

In inglese si suole dire “It takes two to tango” per indicare che per far funzionare qualcosa entrambe le parti devono darsi da fare. Ma cosa devono fare esattamente?

Per rispondere a questa domanda ci viene in aiuto la psicologia attraverso la teoria elaborata da Robert Sternberg, che individua le possibili configurazioni dell’amore, definendo l’amore completo come il risultato di tre componenti che si collocano ai vertici di un ipotetico triangolo: intimità, passione e decisione/impegno.

La componente intimità si riferisce ai sentimenti di confidenza, affinità, condivisione: determina nella coppia la tendenza a prendersi cura dell’altro, ad aprire all’altro i propri sentimenti.
La componente passione riguarda la fisicità: l’attrazione fisica, il desiderio sessuale.
La componente decisione – impegno è distinta in due aspetti: la decisione consiste nel decidere di amare qualcuno; l’impegno consiste nel mantenere nel tempo la relazione. I due aspetti possono essere disgiunti in quanto non sempre ad uno segue l’altro.
Le combinazioni fra queste tre componenti definiscono 7 forme di amore che rappresentano le relazioni reali possibili.

  • Simpatia (solo intimità): vi è confidenza e senso di unione fra i partner ma senza le caratteristiche della passione e dell’impegno (paragonabile ad una vera e propria amicizia).

  • Infatuazione (solo passione): si basa sull’idealizzazione dell’altro più che sulla sua reale conoscenza, finché si scontra con la realtà.

  • Amore vuoto (solo decisione/impegno): è spesso di rapporti in cui i partner stanno insieme solo per tener fede ad un impegno preso, per motivi pratici, economici, per i figli o la difficoltà di affrontare una separazione.

  • Amore romantico (intimità + passione): si tratta della forma tipica delle grandi storie d’amore letterarie e cinematografiche. Nella realtà, l’amore solo romantico è un amore immaturo.

  • Amore – amicizia (intimità + decisione/impegno): è il caso di quei rapporti consolidati sotto il profilo dell’intimità, in cui la coppia funziona, ma la passione è lentamente sfumata (es. matrimoni bianchi).

  • Amore fatuo (passione + decisione/impegno): l’Impegno è frutto solo della passione senza il sostegno dell’intimità e della conoscenza reciproca. Queste relazioni corrono il rischio di infrangersi appena si trovano a fare i conti con un impegno non sentito.

  • Amore “perfetto” (intimità + passione + decisione/impegno): è l’amore completo che tutti sognano, difficile da raggiungere, ma non impossibile.

L’amore “perfetto”, dice Sternberg, non dura se non alimentando le tre componenti dell’amore: intimità, passione e impegno. Nei diversi momenti della storia d’amore, una componente può prevalere rispetto alle altre, ci si può quindi basare su quelle più solide per rinforzare gli aspetti temporaneamente più fragili, cercando di ritrovare un equilibrio. Mantenere in atto l’amore perfetto non è un compito che ha un inizio e una fine, ma si tratta di un lavoro costante, che dev’essere operato congiuntamente dalla coppia.

Un viaggio alla scoperta delle emozioni

Un viaggio alla scoperta delle emozioni: la differenza tra quelle primarie e secondarie.

Le emozioni primarie sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali. Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Costantemente proviamo tante emozioni, una vasta gamma, che varia da quelle positive a quelle negative. Cos’è un’emozione?

Le emozioni sono quelle reazioni spontanee che abbiamo dinanzi e situazioni in cui siamo particolarmente coinvolti, e che comportano oltre che un “sentire”, anche un cambiamento a livello fisiologico, ed una serie di rappresentazioni e di pensieri connessi.

Ekman nel 2008 decise di stilare una lista di emozioni divise in primarie e secondarie.

Le emozioni primarie o di base sono:

1. rabbia, generata dalla frustrazione che si può manifestare attraverso l’aggressività;

2. paura, emozione dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto ad una situazione pericolosa;

3. tristezza, si origina a seguito di una perdita o da uno scopo non raggiunto;

4. gioia, stato d’animo positivo di chi ritiene soddisfatti tutti i propri desideri;

5. sorpresa, si origina da un evento inaspettato, seguito da paura o gioia;

6. disprezzo, sentimento e atteggiamento di totale mancanza di stima e disdegnato rifiuto verso persone o cose, considerate prive di dignità morale o intellettuale;

7. disgusto, risposta repulsiva caratterizzata da un’espressione facciale specifica.

Queste sono emozioni innate e sono riscontrabili in qualsiasi popolazione, per questo sono definite primarie ovvero universali.

Le emozioni secondarie, invece, sono quelle che originano dalla combinazione delle emozioni primarie e si sviluppano con la crescita dell’individuo e con l’interazione sociale.

Esse sono:

allegria, sentimento di piena e viva soddisfazione dell’animo;

invidia, stato emozionale in cui un soggetto sente un forte desiderio di avere ciò che l’altro possiede;

vergogna, reazione emotiva che si prova in conseguenza alla trasgressione di regole sociali;

ansia, reazione emotiva dovuta al prefigurarsi di un pericolo ipotetico, futuro e distante;

rassegnazione, disposizione d’animo di chi accetta pazientemente un dolore, una sfortuna;

gelosia, stato emotivo che deriva dalla paura di perdere qualcosa che appartiene già al soggetto;

speranza, tendenza a ritenere che fenomeni o eventi siano gestibili e controllabili e quindi indirizzabili verso esiti sperati come migliori;

perdono, sostituzione delle emozioni negative che seguono un’offesa percepita (es. rabbia, paura) con delle emozioni positive (es. empatia, compassione);

offesa, danno morale che si arreca a una persona con atti o con parole;

nostalgia, stato di malessere causato da un acuto desiderio di un luogo lontano, di una cosa o di una persona assente o perduta, di una situazione finita che si vorrebbe rivivere;

rimorso, stato di pena o turbamento psicologico sperimentato da chi ritiene di aver tenuto comportamenti o azioni contrari al proprio codice morale;

delusione, stato d’animo di tristezza provocato dalla constatazione che le aspettative, le speranze coltivate non hanno riscontro nella realtà.

Quindi, le seconde sono delle emozioni più complesse e hanno bisogno di

più elementi esterni o pensieri eterogenei per essere attivate.

Le nostre emozioni sono un segnale, servono per vivere e sopravvivere.

Le emozioni non sono né buone né cattive, né positive, né negative, ma sono utili. Dipende dall’uso che ne facciamo e da quanto esse diventano pervasive.

La paura ci segnala che qualcosa, che può metterci in pericolo, si è verificato; ci dà l’allerta, ci spinge a concentrarci maggiormente su ciò che stiamo facendo e ci attiva a mettere in campo le risorse per ovviare alla situazione potenzialmente pericolosa. La rabbia ci segnala che qualcosa o qualcuno sta ledendo noi stessi, che qualcuno sta calpestando i nostri diritti: anche questa emozione, come le altre quindi, ci dà un messaggio.

Le emozioni si possono distinguere in piacevoli (felicità, soddisfazione, gioia) e spiacevoli (paura, tristezza, rabbia, preoccupazione..) ed il vero problema consiste nel loro controllo. Se provo rabbia, ma so gestirla, evitando che mi invada, che diventi pervasiva di me e di tutti i contesti di vita, allora la rabbia non è negativa, ma mi può essere utile, se la uso in modo costruttivo, magari per mettere dei limiti, o per riuscire a dire ciò che non mi va.

Conosciamo davvero le nostre emozioni?

Domandiamoci: sappiamo distinguere in noi uno stato di frustrazione dalla rabbia? Sappiamo distinguere la rabbia e la tristezza? Sappiamo quindi dare effettivamente un nome alle nostre emozioni?

Prima di far ciò occorre che ce le lasciamo sentire queste emozioni! Senza soffocarle.

Entrare in contatto con esse. Non per tutti è cosa semplice, ma ci si può provare, da soli o con l’aiuto di qualcuno.

Siamo consapevoli delle situazioni nelle quali siamo più propensi a provare rabbia o paura o dolore oppure gioia?

Questo aspetto di conoscenza e di consapevolezza di noi stessi ci aiuta a prevedere in futuro le nostre reazioni emotive, evitando di sentirci in balia degli eventi e di noi stessi.

Il primo passo verso la corretta gestione delle nostre emozioni è dare spazio al nostro “dialogo interno”.

E’ sufficiente ritagliarsi un quarto d’ora a fine giornata da dedicare a noi stessi per riflettere su ciò che abbiamo vissuto. Cosa abbiamo provato? Perché? Come abbiamo reagito? Potrebbe essere interessante fare una piccola lista quotidiana delle emozioni che abbiamo provato, arricchendola via via.

Il secondo passo da fare per giungere ad avere una gestione consapevole dei nostri stati emotivi è sfatare la convinzione erronea che le emozioni ci piovano dal cielo, o che gli altri e le situazioni ci facciano provare determinate emozioni.

Nessuno ha così potere di condizionarci.

Gli altri non hanno il potere di farci arrabbiare, così come non hanno il dono di farci sentire felici. Siamo noi che ci sentiamo arrabbiati oppure che proviamo gioia.

Ad una stessa situazione, persone diverse potranno associare pensieri e valutazioni diverse: sarà questo diverso modo di vedere le cose che farà sorgere in loro un sentire che sarà esso stesso diverso tra l’una e l’altra, e comporterà poi, di conseguenze, reazioni comportamentali diverse.

Vediamo bene come i nostri pensieri, sulle cose, sugli altri e su noi stessi influenzano le nostre emozioni, e di conseguenze possiamo usare l’immenso potere della nostra mente per poter controllare e rendere più tollerabile il livello di alcune nostre emozioni, specie quelle spiacevoli.

Un passo importante è quindi allenarci a sostituire i pensieri negativi con altri positivi, ad esempio:

Pensieri Negativi

Pensieri Positivi

Sono un disastro Se mi sforzo avrò successo
Non ce la facccio Preoccuparsi non facilita le cose
Tutto andrà storto Non è poi così terribile
Non riesco a controllare questa situazione Forse non la conosco a fondo
Sono finito Cosa mi preoccupa?

Ogni situazione che viviamo viene commentata interiormente. Le emozioni sono influenzate dalle considerazioni che facciamo sugli eventi.   

I pensieri sono una forma di comportamento non direttamente osservabile, in quanto interiore, ma pur sempre modificabile. Abbiamo acquisito il nostro modo di pensare tramite l’esperienza ed è quindi appreso, non innato. Cambiare modo di pensare è come cambiare certe abitudini, ovviamente non sono da cambiare tutti i nostri modi di pensare, ma solo quelli che ci portano ad avere con frequenza emozioni intense e spiacevoli.

La rabbia: come reagire in modo efficace

La rabbia è una emozione primitiva, fondamentale con una specifica origine funzionale, essa può essere osservata sia in bambini molto piccoli che in specie animali diverse dell’uomo.

Insieme alla gioia e al dolore, la rabbia è una tra le emozioni più precoci.

Si usano moltissimi termini linguistici per riferirsi a questa reazione emotiva: collera, esasperazione, furore ed ira per rappresentare lo stato emotivo intenso della rabbia; altri per esprimere la stessa emozione ma di intensità minore, come: irritazione, fastidio, impazienza.

Per la maggior parte delle teorie la rabbia rappresenta la tipica reazione alla frustrazione e alla costrizione, sia fisica che psicologica.

Ancor più delle circostanze concrete del danno, quello che più pesa nell’attivare una emozione di rabbia sembra cioè essere la volontà che si attribuisce all’altro di ferire e l’eventuale possibilità di evitare l’evento o situazione frustrante.

Ci si arrabbia quando qualcosa o qualcuno si oppone alla realizzazione di un nostro bisogno, soprattutto quando viene percepita l’intenzionalità di ostacolare l’appagamento.

La cultura e le regole sociali a volte impediscono di dirigere la manifestazione e l’azione direttamente verso l’agente che scatena la rabbia, spesso si assiste ad una inibizione dell’azione di aggressione e addirittura al mascheramento dei segnali della rabbia verso l’oggetto frustrante.

Quando la rabbia non viene rivolta verso l’oggetto che provoca la frustrazione, potrebbe essere spostata verso un oggetto diverso oppure diretta verso se stessi, trasformandosi in autolesionismo ed auto aggressione.

Per quanto possano essere forti le pressioni contro la manifestazione della rabbia, essa possiede una tipica espressione facciale, ben riconoscibile in tutte le culture studiate. L’aggrottare violento della fronte e delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, rappresentano le modificazioni sintomatiche del viso che meglio esprimono l’emozione della rabbia. Tutta la muscolatura del corpo può estendersi fino all’immobilità.

Le sensazioni soggettive più frequenti possono essere: la paura di perdere il controllo, l’irrigidimento della muscolatura, l’irrequietezza ed il calore. La voce si fa più intensa, il tono sibilante, stridulo e minaccioso. L’organismo si prepara all’azione, all’attacco e all’aggressione. Le variazioni psicofisiologiche sono quelle tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo simpatico, ossia: accelerazione del battito cardiaco, aumento della pressione arteriosa e dell’irrorazione dei vasi sanguigni periferici, aumento della tensione muscolare e della sudorazione. Gli studi sugli effetti dell’inibizione delle manifestazioni aggressive sembrano indicare che chi non esprime in alcun modo i propri sentimenti di rabbia tende a viverli per un tempo più lungo.

Le modificazioni psicofisiologiche sono funzionali alla rimozione dell’oggetto frustrante. La rabbia è sicuramente uno stato emotivo che aumenta nell’organismo il propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni oppure solo espressioni verbali.

La rimozione dell’ostacolo che si oppone alla realizzazione del bisogno può avvenire sia attraverso l’induzione della paura e la conseguente fuga sia mediante un violento attacco.

 

 

I motivi alla base di un attacco di rabbia riguardano la frustrazione di attività che erano connesse con l’immagine e la realizzazione di sé. Lo scopo della rabbia sembra rivolto a modificare un comportamento che non si ritiene adeguato.

L’arrabbiarsi, motivando chiaramente le motivazioni dello scontento, sembra infatti essere una procedura per ottenere un utile cambiamento.

I social network, ci propinano una immensa quantità di cose per cui vale la pena di arrabbiarsi, e ci spingono subdolamente a pensare che reagire con una battuta pepata o cliccare ripetutamente mi piace sui commenti degli altri, sia di una qualche utilità; essere arrabbiati tende a sostituire l’azione: questa è un’esperienza emotiva che crea assuefazione e ci illude che stiamo facendo qualcosa, mentre in realtà non è altro che un diversivo.

Quando arrabbiarsi non porta mai a nulla, alla lunga subentra lo scoraggiamento.

Ci adattiamo al peggio: “Se cerchiamo di mantenere quel livello febbrile di angoscia, paura e indignazione, il nostro cervello, per proteggerci, abbassa semplicemente il volume della rabbia e si adatta”. Siamo indotti a pensare che l’unico modo per opporci alla “normalizzazione” di cose terrificanti sia rimanere costantemente infuriati. Se fremiamo dalla rabbia – ci dice la logica – non rischiamo di diventare acquiescenti.

Il guaio, secondo Curzer, è che anche le emozioni si normalizzano (a causa dell’ormai noto “adattamento edonico”, per cui le cose nuove ed entusiasmanti a lungo andare ci sembrano banali, e certe situazioni terrificanti prima o poi non ci fanno più soffrire). Perciò non è egoistico, anzi forse è proprio nostro dovere, ogni tanto prendere le distanze dall’orrore e continuare la nostra vita, specialmente nei suoi aspetti più piacevoli. Chiamiamolo “prenderci cura di noi stessi”, se vi piace questa brutta espressione, ma è anche un modo per evitare che le nostre emozioni si appiattiscano.

È strano pensare che “angoscia, paura e indignazione” possano creare assuefazione: di solito riserviamo questo concetto a esperienze che, almeno all’inizio, sono piacevoli. Ma come hanno sempre sostenuto i buddisti, l’avversione e il desiderio sono due facce della stessa medaglia: sia che moriamo dalla voglia di qualcosa o che la detestiamo per qualche motivo, si tratta sempre di un’ossessione.

Se vogliamo lanciare una campagna contro qualcuno o qualcosa, saremo molto più efficaci se riusciamo a mantenere un certo distacco invece di lasciarci trascinare in un futile turbine di rabbia, che va unicamente a vantaggio dei nostri avversari. È come rafforzare un muscolo. Potremmo chiamarlo addestramento alla resistenza.

Dipendenza da Internet (Internet addiction disorder IAD)

Dopo la rivoluzione industriale del XIX secolo, l’era di internet, sembra essere il maggior cambiamento globale avvenuto a livello planetario negli ultimi 3 secoli, ossia, l’evento che ha cambiato il modo di pensare e di vivere di tutti.

Internet segna l’inizio di una nuova epoca: l’era digitale, indica la radicale trasformazione culturale che ha condotto l’umanità verso il terzo millennio.

Questo comporta una serie di aspetti problematici sugli equilibri affettivi, e relazionali ed anche sull’assetto cognitivo delle persone.

Gli scenari aperti da Internet, stanno modificando rapidamente le nostre abitudini e le modalità di intendere i processi di comunicazione, introducendo nuovi modelli esperienziali, relazionali e cognitivi in ogni ambito relazionale.

Sempre più specialisti hanno ritenuto indispensabile analizzare i cambiamenti che si verificano nella psiche umana in rapporto alla diffusione della rete e si sono interrogati, non solo sui benefici, ma anche sui rischi psicopatologici connessi all’abuso.

Alcune caratteristiche di questo mezzo di comunicazione:

  • facile accessibilità;

  • annullamento delle distanze;

  • superamento dei normali vincoli spazio temporali;

  • quantità di stimoli;

  • possibilità dell’anonimato;

  • parificazione dello status sociale;

  • possibilità di esplorare aspetti differenti della personalità dell’individuo.

A partire dal 1996, e’ stata ipotizzata e documentata una forma di dipendenza da Internet nota con l’acronimo di IAD, Internet Addiction Disorder.

La IAD e’ una delle ultime forme delle cosiddette “dipendenze senza sostanze“.

I sintomi delle patologie da dipendenza sono (o possono essere): desiderio incontrollabile (craving), problemi sociali, coniugali, prestazionali, sintomi astinenziali, isolamento, perdita di controllo, difficoltà economiche e lavorative.

Nel ’98 sono stati evidenziati 6 criteri operazionali:

1. Salienza: l’attività occupa in maniera predominante la sfera cognitiva, affettiva e comportamentale;
2. Modificazioni del tono dell’umore: l’attività può avere effetti di arousing o tranquillizzanti;
3. Tolleranza: il soggetto impegna un intervallo di tempo progressivamente piu’ ampio;
4. Astinenza: l’allontanamento dall’attività produce una classica sindrome da astinenza;
5. Conflitti: a causa dell’attività prolungata insorgono conflitti nello svolgimento di altri compiti o nelle relazioni;

  • 6. Recidiva: vi e’ una tendenza a perpetrare in maniera compulsiva l’atto o ricadute.

I soggetti piu’ a rischio sembrerebbero avere un’età tra i 15 e i 40 anni, maggiormente uomini, con carenze comunicative.

Per le persone che presentano problematiche psicologiche preesistenti, la IAD rappresenterebbe un “comportamento di evitamento“, grazie al quale il soggetto evita di affrontare i propri problemi spostando l’attenzione e dedicando la maggior parte del proprio tempo ad attività svolte in Internet.

In Italia sono state evidenziate due tappe che portano a sviluppare una vera e propria rete-dipendenza:

  1. la tossicofilia (interesse ossessivo per la mail-box, progressivo tempo trascorso in rete, appropriazione del gergo, partecipazione intensa a chat e gruppi di discussione, ecc.);

  2. la tossicomania, in cui i collegamenti sono cosi’ prolungati da compromettere la vita di relazione, sociale e professionale.

La condotta tossicomanica riguarda solo soggetti con problematiche psicologiche pregresse come tratti ossessivi-compulsivi.

Vari studi sulla personalità dei soggetti “dipendenti” e “non dipendenti” ha riscontrato nei soggetti dipendenti, tratti di personalità psicopatologici e comorbilità tra la IAD e altri disturbi psichiatrici.

Occorre tuttavia osservare, che solo ricerche longitudinali potranno in futuro stabilire se i tratti psicopatologici siano un effetto o causa della rete dipendenza.

Una categoria estremamente esperta ed “affascinata” dalla rete, con le sue infinite potenzialità, è quella degli adolescenti e dei giovani, per i quali si rende necessario un lavoro particolarmente attento in termini di prevenzione.

Internet, nuovo mezzo di comunicazione, rappresenta un fenomeno di massa e può essere considerato la vera, straordinaria novità del III millennio, non a caso denominato “era digitale“.
Una grandissima innovazione dalle enormi potenzialità, ma dai rischi altrettanto elevati.
E’ fondamentale, perciò, per i professionisti che si occupano della salute mentale e del benessere approfondire e studiare l’impatto che un mezzo cosi’ potente può avere sulla mente umana, sia in termine di prevenzione che in termini di cura laddove l’uso si trasformi in abuso, ovvero in un quadro psicopatologico.

Costruiamo l’autostima dei nostri ragazzi!

Sempre più spesso i bambini vengono giudicati e “torturati” psicologicamente.

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La tortura non è solo quella fisica, ma anche quella psicologica.

Viviamo in una società molto superficiale, dove i tempi frenetici e la poca pazienza che abbiamo nei confronti dei nostri bambini e delle nostre bambine, ci spingono a conclusioni affrettate sulle loro potenzialità e capacità cognitive.

Troppo spesso i genitori mi portano i loro figli emotivamente avviliti, psicologicamente affranti, demotivati e senza più la minima autostima di se stessi. Arrivano quando il figlio o la figlia ha difficoltà nello studio, trascorre tutto il tempo a giocare con videogiochi, e va malvolentieri a scuola.

Arrivano dicendo che l’insegnante gli ha detto che sicuramente ha qualche problema, e quando arrivano da me hanno già fatto percorsi con il logopedista e il più delle volte, il medico, gli ha certificato un ritardo nell’apprendimento.

Ma il più delle volte i bambini o i ragazzi, recuperano nel giro di un anno scolastico tutte le carenze!

Bisognerebbe domandarsi come possono reagire i ragazzi a queste problematiche non vere sulla loro capacità di apprendimento. Bisognerebbe chiedersi cosa provano? Come si sentono?

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Spesso tutto questo porta sentirsi inferiori, a pensare di essere diversi, stupidi, non capaci come i loro compagni di classe. La psiche lentamente cambia. Si perde l’autostima, se diventa tristi, paurosi e a scuola non si rende più, non ci si sente capaci e ci si convince di non riuscire negli studi; ci si domanda perché continuare a studiare; perché continuare ad andare a scuola, a cosa serve…

Le conseguenze di tutto questo diventano ancora più gravi quando con l’aiuto di scuole private e insegnanti di sostegno si arriva a prendere l’agognato diploma.

Non si ha nessuna motivazione a sperimentare il mondo del lavoro, spesso per evitare ulteriori frustrazioni ci si isola in uno stile di vita che spesso porta alla depressione.

Trovo molto grave che alcuni insegnanti si sentano in diritto di fare diagnosi senza averne la competenza.

Trovo molto grave la connivenza di alcuni medici che devono trovare necessariamente un’anomalia in un bambino che ha solo bisogno di essere rispettato nei suoi tempi di apprendimento, mentre la loro diagnosi è basata su statistiche (vi ricordo che Albert Einstein ha mostrato la sua genialità solo all’università, risultando terribilmente carente in tutti i precedenti corsi di studi, soprattutto in matematica; e nonostante oggi si dica che fosse dislessico, niente e nessuno allora, fortunatamente, gli ha impedito di credere in se stesso e di diventare ciò che tutti noi conosciamo).

Troppo spesso i bambini non hanno bisogno di logopedisti o medici di qualsiasi genere, ma solo di una efficace didattica e di essere visti individualmente senza essere confrontati con le medie statistiche.

Ma è tutto un sistema di scarica barile: l’insegnante ai genitori, i genitori al medico, il medico al logopedista e il logopedista sul problema diagnosticato dal medico che purtroppo si può migliorare, ma non curare.

È sicuramente difficile seguire un bambino nella sua individualità quando si insegna in una classe pollaio, ma non è giusto che sia il bambino a pagarne le conseguenze.

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Trovo grave anche alcuni comportamenti genitoriali, non riuscire a trovare la pazienza di ascoltare i figli; che continuano ad imboccarli come se fossero sempre piccoli, senza svezzarli nel rapporto e nella loro continua e costante crescita di competenze.Questo è un errore grave, molto grave, perché non permette loro di crescere, di sviluppare indipendenza, di conquistarsi quel pezzettino di mondo a scuola, che solo a loro appartiene. Non avete voglia di seguire e capire i cambiamenti che la scuola li costringe a sviluppare, non avete la voglia di capire che il vero problema potrebbe essere nel rapporto con voi, con la maestra o con i compagni di classe. Perché è così: quasi sempre il problema scolastico ha le sue profonde radici nel rapporto umano.

Allora non distruggiamo la mente e la vitalità dei figli, troviamo il coraggio e l’umiltà di valutare i rapporti, di considerare quello che la maestra ha con vostro figlio o vostra figlia, prima ancora di intraprendere un percorso diagnostico, che in quanto tale, nella mente del bambino, riporta sempre e comunque a una malattia e quindi a una diversità dai compagni di scuola.

Non confondiamo le difficoltà didattiche e di rapporto con la scusa della malattia, una malattia che nessuno ha organicamente riscontrato e che si basa solo su statistiche. Eviteremo così di crescere bambini insicuri, ribelli, aggressivi, svogliati, tristi, spaventati e senza autostima.

Fame emotiva e fame psicologica

A pig eating a sandwich --- Image by © Artisticco/ImageZoo/Corbis
A pig eating a sandwich — Image by © Artisticco/ImageZoo/Corbis

Nella nostra pancia è presente un cervello vero e proprio che sebbene contenga meno neuroni di quello nella testa, decide il nostro umore e rielabora le emozioni e i ricordi.

E’ sede della maggior parte del sistema immunitario ed è il luogo dove viene prodotta l’energia che usiamo. Quindi quello che accade nella pancia è fondamentale e decide il nostro rapporto col cibo.

Gli psicoterapeuti sanno bene come le emozioni e i traumi si riflettano nel corpo e il nostro linguaggio comune ce lo ricorda in continuazione: sei verde dalla rabbia, sei rosso dalla vergogna, mi è rimasto sullo stomaco, ho le gambe molli, sei una testa vuota, hai un cuore di pietra, l’ho presa di petto, ecc.

Quasi tutte le comunicazioni sono “bottom-up” cioè dall’intestino al sistema nervoso centrale e riguardano la trasmissione di informazioni generate nell’apparato digerente, ma c’è una quota minore comunque rilevante, di comunicazioni “top-down”. Forti sensazioni, eventi traumatici, stress emotivi elaborati nel sistema nervoso centrale possono causare disturbi nel funzionamento gastro-intestinale come crampi addominali, coliti, stipsi, diarrea, nausea, vomito.

STATO EMOTIVO E RIFLESSO NELL’APPARATO DIGERENTE

Alcune ricerche hanno messo in luce che le persone depresse hanno un ritmo dei processi digestivi rallentato e tendono alla stitichezza, mentre le persone ansiose presentano un transito accelerato del cibo, in particolare nel colon.

Altre ricerche hanno evidenziato che specifiche emozioni hanno un effetto importante sullo stomaco: per esempio la paura riduce la dilatazione dello stomaco e induce una sazietà precoce.

Lo stress può causare diarrea, nausea o vomito. Infatti lo stress è un sistema innato finalizzato a salvarci la vita: per l’uomo delle caverne è stato senz’altro funzionale liberarsi l’intestino nelle situazioni di pericolo poiché ciò alleggerisce il corpo favorendo la fuga. Tuttavia nella società moderna, se la condizione di stress è cronica, anche queste reazioni viscerali si cronicizzano.

IL CIBO CERCA DI COLMARE UN VUOTO

Sembrerebbe cosa semplice da fare “mangiare quando si ha fame”, ma capita a tutti, di non mangiare solo per soddisfare la sensazione di fame.

Mangiare dovrebbe prendere inizio da una sensazione fisica, ma molto spesso parte da un’emozione. Se stai mangiando mentre stai provando noia, stress, fatica, tensione, rabbia, solitudine, ansia o depressione, ricorda che sei dentro alla fame nervosa per riempire un vuoto.

La fame corporea non arriva così all’improvviso: è la fame nervosa quella che ti prende di sorpresa. E’ la fame nervosa quella che ti fa aver bisogno di essere immediatamente sazio. La fame corporea può aspettare.”

Il cibo viene consumato anche se non più richiesto dal nostro corpo già sazio, a volte può aiutare a creare situazioni di scambi relazionali e momenti di intimità, questo va benissimo; fame_coppiaSpesso però possiamo vedere che ci rivolgiamo al cibo per alleviare lo stress o per far fronte ad emozioni spiacevoli, o più in generale, difficili da gestire.

L’insoddisfazione, la frustrazione, la noia, un senso di solitudine possono spingere a mangiare, a trovare una soddisfazione orale quindi, o a colmare un “vuoto” per evitare di sentirlo fino in fondo, oppure per evitare la fatica di andarci a cercare ciò che realmente ci serve.

NELLA SOCIETA’ MODERNA L’ALLATTAMENTO E’ L’UNICO MOMENTO DI INTIMITA’ CON LA MADRE

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E’ spiegata chiaramente la connessione tra quello che accade nei primi mesi di vita e la disfunzionale relazione col cibo che si avrà negli anni futuri: Durante le poppate il piccolo ritrova in parte la fusione con il corpo materno e sperimenta nuovamente la totalità che esisteva prima della nascita.

Nella nostra frenetica vita moderna, però, quello è spesso anche l’unico momento d’intimità concesso alla madre e al bambino. Gli orari di lavoro, la gestione della casa, l’accudimento di altri fratellini e un certo tipo di pedagogia distolgono l’attenzione della mamma, impedendole quella dedizione totale di cui ogni nuovo nato ha bisogno per superare positivamente il trauma della nascita.

Le mamme umane, per assolvere le tante richieste della società, non riescono a dedicare ai figli tempo totalizzante e appartenenza reciproca, sono costrette a delegare a nonni, baby sitter e asili nido. L’allattamento, perciò, diventa un momento preziosissimo per il bambino che, almeno in quello spazio di tempo, può rivivere l’unità originaria, sperimentando la sensazione di esclusività e di potere che deriva dal sentirsi contemporaneamente se stessi e il mondo, in un unico Tutto inscindibile.

IL CIBO PRENDE SUBITO IL POSTO DELLE CAREZZE E DEGLI ABBRACCI

“Proprio le caratteristiche che rendono l’allattamento un momento così speciale, finiscono per trasformarlo nella premessa della dipendenza che, in seguito, caratterizzerà l’alimentazione.

Infatti, è in quei momenti che il cibo diventa lo strumento privilegiato per ricevere amore.

Nella cultura umana il contatto fisico (a meno che non sia erotizzato) è bandito dalle relazioni, ma la necessità di condividere l’affettività trova nell’alimentazione uno spazio sostitutivo, lecito e incentivato culturalmente.

Durante l’allattamento, periodo in cui la mente non ha ancora sviluppato una propria capacità critica, in seguito alla mancanza di fisicità e continuità nel rapporto tra mamma e bambino, s’imprime nelle percezioni la sensazione che mangiare soddisfi il bisogno d’amore, e il cibo prende il posto delle carezze e degli abbracci di cui tutti i piccoli hanno bisogno per sopravvivere.”

Sebbene lo stimolo della fame emotiva può essere piuttosto forte, come per la fame “vera” fisiologica, ci sono degli elementi di differenza. La fame emotiva sopraggiunge improvvisamente. Si presenta col bisogno urgente ed irrefrenabile di soddisfarla; la fame fisiologica al contrario viene in modo più graduale.

Nella fame emotiva, in genere, si desiderano alimenti specifici che danno una immediata gratificazione al gusto, e si ha voglia di mangiare solo quelli e nient’altro potrebbe soddisfare quel tipo di fame. Quando invece si è realmente affamati, tutto può andare bene, tra cui cibi sani.

Nella fame fisiologica lo stimolo cessa quando ci si sente sazi, mentre nella fame emotiva la sazietà non impedisce di desiderare dell’altro cibo gratificante.

La fame emotiva sembra non albergare nello stomaco, ma la si avverte come un desiderio che non si riesce a togliere dalla testa.

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CONCLUSIONE

Prima di pensare a quale sia la dieta più giusta ricorda che la mente ha una forza enorme sul corpo: anche il cibo più sano potrà produrre tossine e creare disturbi fisici se non digerito correttamente, e una corretta digestione può avvenire solo se la pancia è alleggerita da tutto quello stress dovuto ai traumi passati e ad un ritmo accelerato di vita.

Lasciamo andare tutto il peso emotivo del passato che ci portiamo dietro. Permettiamoci di lasciarlo andare. Stare nella natura, camminare a piedi nudi, giocare con gli animali, divertirsi con i bambini, meditare, respirare, fare yoga e attività fisica, ridere cantare e ballare sono tutte cose che aiutano tantissimo in questo: tutte attività che quando siamo proiettati nel futuro trascuriamo completamente.

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