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“L’arte di essere felici”

Per me è stato sorprendente scoprire che “L’arte di essere felici” è il titolo di un manoscritto di Arthur Schopenhauer , il filosofo tedesco generalmente lo associavo a una delle sue famosi frasi: “la vita oscilla come un pendolo avanti e indietro, tra dolore e noia”.

Grazie al romanzo di Jalom “ la cura Schopenhauer” ho iniziato ad amare un lato meno noto del filosofo.

Schopenhauer era un pessimista estremo, pensava che vivessimo nel peggiore dei mondi possibili e che la felicità fosse solo un’illusione.

Chi più di lui può aiutarci ad individuare i suggerimenti utili per combattere dolore e noia.. per evitare sofferenze inutili e provare ad essere più felici.. proviamo quindi ad addentrarci nelle 10 regole di Schopenhauer per essere felice qui e ora.

Le chiavi della felicità, secondo Schopenhauer

1. Evita l’invidia e i confronti

Nulla è implacabile o crudele come l’invidia”, disse Schopenhauer.

L’invidia è una delle emozioni più negative che possiamo provare perché ci condanna a uno stato di insoddisfazione permanente, allontanandoci dalla felicità. Confrontarci con gli altri implica dedicare tempo ed energia a un compito infruttuoso in cui quasi sempre perdiamo, perché di solito ci confrontiamo con quelli che pensiamo essere più ricchi, capaci o felici. Pertanto, il primo passo per essere felici è smettere di confrontarci, e capire che l’invidia non ha senso perché siamo tutti diversi.

Dato che è utopico eliminare il confronto possiamo soffermarci sulla diversità qualitativa invece che sul confronto quantitativo, potremmo scoprire che la somma è sempre uguale a zero.

2. Smettila di preoccuparti dei risultati

Schopenhauer disse che prima di intraprendere qualsiasi progetto o prendere una decisione importante, dovremmo riflettere a lungo su di esso ma, una volta fatto il passo, dobbiamo smettere di preoccuparci ossessivamente dei risultati. Il filosofo ci incoraggia a dare il meglio di noi stessi e a rimanere con l’intima soddisfazione di aver fatto del nostro meglio, senza essere troppo ansiosi per i risultati ottenuti, perché spesso non dipendono neppure esclusivamente da noi.

A volte possiamo anche prendere la decisione sbagliata, diamoci il permesso di farlo, questo ci può aiutare a cambiare le cose quando è possibile, e ad accettare serenamente le conseguenze.

C’è sempre un lato positivo nascosto in qualsiasi situazione.

3. Segui il tuo istinto

Schopenhauer pensava che ci fossero persone molto creative e altre più logiche, persone portate all’azione e altre alla contemplazione. Pertanto, uno dei suoi consigli per essere felice è lasciarsi portare dall’istinto e non andare contro la nostra natura.

Per commentare Schopenhauer cito Nietzsche: “Diventa che sei”.

Solo trovando la nostra passione autentica possiamo essere felici.

4. Fai in modo che la tua felicità dipenda solo da te

Schopenhauer incoraggiava l’autosufficienza. Spiegava che se la nostra felicità dipende dagli altri, allora non è nostra. Considerava che “la felicità appartiene a coloro che sono autosufficienti, perché tutte le fonti esterne di felicità e divertimento sono, secondo la loro specie, insicure, difettose, fugaci e soggette al caso”. Per questo motivo, incoraggiava a cercare le ragioni per essere felici dentro di noi, non fuori.

Gli altri e il mondo esterno possono essere una fonte inesauribile di felicità, ma devono essere il valore aggiunto, dobbiamo riconoscerci il potere di poter cambiare il mondo esterno e sentire che ne possiamo fare a meno.

5. Limita i tuoi desideri

Schopenhauer, profondamente influenzato dalla filosofia buddista, pensava che per essere felici dobbiamo limitare i nostri desideri. Pensava che desiderare continuamente ci sprofonda in una spirale di insoddisfazione che ci porta a rincorrere cose che non finiranno mai di soddisfarci, perché genereranno nuovi bisogni e desideri. Pertanto, era profondamente convinto che uno dei segreti per essere felici è desiderare molto meno.

Soddisfare desideri autentici può dare gioia. E’ molto più difficile individuare i propri desideri autentici che soddisfarli; spesso senza esserne consapevoli inseguiamo desideri “contaminati” indotti dalle figure di riferimento o dalla società, questo potrebbe spiegare la mancata soddisfazione.

6. Controlla le tue aspettative

Schopenhauer non solo ci incoraggia a limitare i nostri desideri, ma anche le nostre aspettative, perché queste sono spesso la causa dell’infelicità. Ogni aspettativa che non è soddisfatta è un terreno fertile per la frustrazione. Infatti, egli affermava che “invece di speculare sulle possibilità favorevoli, inventando centinaia di illusioni speranzose, tutte gravide di delusione se non soddisfatte, dovremmo concentrarci su tutte le possibilità avverse, che ci porterebbero a prendere delle precauzioni”. In altre parole, ci incoraggia a sviluppare una visione più realistica che ci permetta di affrontare gli ostacoli, invece di nutrire false aspettative che ci rendono infelici.

Avere aspettative idealizzate o magiche ci porta a frustrazione certa, avere aspettative realistiche ci offre due opzioni, che vengano soddisfatte o che ci sorprendano positivamente.

7. Valuta ciò che hai come se dovessi perderlo domani

Valorizzare ciò che abbiamo: salute, famiglia, amici. Raramente pensiamo a ciò che abbiamo; ma sempre a quello che ci manca”.

Gioire per quello che abbiamo è un modo eccellente per coltivare la felicità.

8. Sii compassionevole con te stesso

Schopenhauer diceva che “la gentilezza è come un cuscino, che anche se non ha nulla dentro, almeno smorza le devastazioni della vita”.

Analizzare i nostri errori può aiutarci ad evitarne altri, a conoscere il nostro funzionamento, i nostri punti di forza e le nostre fragilità. Anche questo però va fatto con gentilezza e comprensione, senza rimproverarci o auto-flagellarci.

Aboliamo il senso di colpa risarcendo il torto fatto.

9. Bilancia l’attenzione tra il presente e il futuro

Schopenhauer pensava che uno squilibrio tra l’attenzione che diamo al presente e quella che diamo al futuro, può far sì che l’uno rovini l’altra. In sostanza, ci esorta a elaborare progetti, ma restando con i piedi per terra, godendoci il qui e ora, senza rinviare la felicità ad un futuro che potrebbe non arrivare mai. La sua idea era che non dovremmo ipotecare la nostra felicità per un obiettivo futuro, ma nemmeno dovremmo essere troppo offuscati da un’avversità presente per pensare che il futuro non ci porterà niente di positivo. La chiave sta nel muoversi con scioltezza nel tempo, per trovare in ogni momento ciò di cui abbiamo bisogno per andare avanti.

10. Intraprendi e impara, sempre

Schopenhauer disse “non c’è vento favorevole per coloro che non sanno in che porto stanno andando”. Pertanto, attribuiva sempre una grande importanza ai piani e ai progetti futuri, che apportano una buona dose di entusiasmo alla vita. Quando restiamo nella nostra zona di confort, senza imparare nulla o progettare nuove sfide, ci spegniamo un poco alla volta ogni giorno. Pertanto, per essere felici, dobbiamo andare avanti continuamente, imparando sempre qualcosa di nuovo e ponendoci nuove sfide che ci consentano di crescere come persone.

La lezione schopenhaueriana ci è fondamentalmente consegnata dal suo capolavoro “Il mondo come volontà e rappresentazione (1819)”: secondo Schopenhauer il mondo che conosciamo è il risultato della nostra personale rappresentazione. Questione di prospettive, punti di vista. Questo significa che la nostra conoscenza dei fenomeni passa attraverso il filtro di una interpretazione del tutto soggettiva: è questo il senso del dire che «non esiste il Sole, ma l’occhio che guarda il Sole». Sotto il velo del pensiero si nasconde la poesia.

Valutare un percorso di psicoterapia.

Sempre più spesso, mi arrivano persone che hanno già “tentato” percorsi di psicoterapia, oppure persone che mi raccontano dei percorsi fallimentari di amici e parenti, ma anche persone che mai avrebbero pensato di fare una psicoterapia ma che “scoprendo” che i cambiamenti di un amico piuttosto che di un parente sono la conseguenza di un “buon” percorso si decidono a “provare”, qualcosa che è sempre stato nei propri desideri ma di cui erano spaventati a causa di pregiudizi e scarsa informazione.

L’idea di scrivere questo articolo mi è nata dal libro di Jalom che sto leggendo in questo momento: “Sul lettino di Freud”, dove tra i vari argomenti si fa riferimento a storie di “cattiva psicoterapia”: interpretazioni superficiali, consigli avventati e non richiesti, trattamenti che peggiorano la situazione di sofferenza della persona.

L’intervento dello psicologo si basa per lo più sul colloquio, il suo operato è piuttosto impalpabile e difficile da valutare. Per questo motivo vorrei esplicitare la mia opinione al riguardo maturata in base alla mia personale esperienza professionale, distinguendo i criteri personali, soggettivi e discutibili, dai criteri del Codice Deontologico degli Psicologi.

Durante il percorso di psicoterapia può capitare che il paziente sviluppi un avversione per il proprio psicoterapeuta. Questo però non significa automaticamente che lo psicoterapeuta sia incompetente o che la terapia non stia proseguendo nella giusta direzione. Talvolta infatti il paziente rivive col proprio psicoterapeuta i sentimenti negativi che aveva da bambino, specie in relazione con i propri genitori. In questi casi si parla di transfert, concetto introdotto da Sigmund Freud, e che consiste nell’agire con lo psicoterapeuta quegli stessi sentimenti di ostilità (ma talvolta anche di amore) che la persona ha sviluppato con figure di riferimento significative, (spesso i genitori). Tali sentimenti sono spesso ciò che ha condotto il paziente in terapia e rappresentano ciò che il paziente ha bisogno di cambiare per stare meglio. In questi casi, quindi, non bisogna abbandonare prematuramente il percorso di psicoterapia ma affrontare il “trasfert” assieme allo psicoterapeuta in modo da trarne i relativi apprendimenti. E’ importante non scambiare un comune “transfert” per un segno di “cattiva psicoterapia”.

La mia opinione al riguardo maturata in base alla mia personale esperienza professionale:

Lo psicoterapeuta effettua interventi di psicoterapia individuale con persone che hanno tra loro importanti rapporti di natura personale.

Spesso ho sentito di colleghi che vedono in terapia individualmente due coniugi, oppure madre e figlio, o due fratelli. Non condivido l’operato di questi colleghi perché così facendo si riduce la possibilità di una o di entrambe le persone di esprimersi liberamente e autenticamente, il rapporto con lo psicoterapeuta rischia fortemente di non essere più naturale e fluido.

Prendere in psicoterapia due persone legate da un importante rapporto di carattere personale significa, a mio avviso, mettere a rischio la possibilità di apertura autentica del paziente e quindi l’esistenza stessa della situazione psicoterapeutica che si basa sull’autenticità del rapporto terapeuta-paziente.

Alcuni colleghi giustificano la psicoterapia individuale con due persone legate da un forte legame personale con il fatto che in tal modo hanno la possibilità di raccogliere più velocemente una maggiore quantità di informazioni riguardanti le persone. Anche se ciò fosse vero, questo avverrebbe al costo di corrompere il rapporto di apertura con il terapeuta. Quello che di norma avviene in queste situazioni, infatti, è che una delle due persone finisce per sentirsi inibita ad aprirsi con il terapeuta.

La psicoterapia è una situazione molto particolare e difficile, che richiede impegno, energie, tempo e denaro. Meglio non rischiare di complicare ulteriormente la situazione psicoterapeutica perché da “difficile” potrebbe diventare “impossibile”.

Lo psicoterapeuta dà consigli avventati.

Mi capita spesso, e ne rimango sempre sconcertato, di udire storie da parte di persone che hanno ricevuto consigli sconsiderati da parte di colleghi psicologi, magari al loro primo (e per fortuna spesso unico) incontro.

Esempio: lo psicoterapeuta durante il primo incontro fornisce consigli al paziente circa la sua vita di coppia, il lavoro, l’assunzione di psicofarmaci, l’uscita dalla casa dei genitori: “Lascia tuo marito e vai via con i figli”, oppure “Hai bisogno di consultare uno psichiatra per cominciare ad assumere una terapia psicofarmacologica”. Se vi capita di ricevere un consiglio avventato da parte di uno psicoterapeuta al primo incontro, il mio consiglio è di scappare il più presto possibile!

A questo proposito vorrei fare una specificazione, dove a volte i pazienti rielaborano quello che succede in seduta e lo modificano inconsapevolmente. A me è capitato che qualche paziente mi dicesse:” ho fatto quello che mi aveva detto lei”, io sono sicura di non avergli detto, probabilmente in una riformulazione o una sottolineatura ho detto qualcosa che il paziente vive come consiglio, quindi quando un paziente dice “il mio psicologo mi ha detto..” va sempre preso con la dovuta cautela..

Lo psicoterapeuta non è in grado di spiegare in che modo il processo di psicoterapia aiuterà la persona a raggiungere i proprio obiettivi.

Vi sono degli psicoterapeuti che, troppo legati ad una specifica tecnica, si limitano ad applicarla senza distinguere ciò che sanno fare da ciò che è utile.

Esempio: lo psicoterapeuta, esperto di training autogeno, applica questa medesima tecnica a tutti i suoi pazienti a prescindere dalla problematica che presentano.

Lo psicoterapeuta critica e colpevolizza il paziente.

Affinché le persone cambino hanno bisogno di esplorarsi e comprendere le ragioni profonde dei propri blocchi, dei propri conflitti e comportamenti disfunzionali. A questo scopo è fondamentale lo spazio di non-giudizio che lo psicoterapeuta capace riesce a creare durante le sedute.

Esempio: lo psicoterapeuta critica aspramente il paziente che non ha fatto i “compiti a casa”.
Esempio: lo psicoterapeuta colpevolizza il paziente per la sua tossicodipendenza.

Lo psicoterapeuta biasima la famiglia, gli amici o il partner del paziente.

Una delle funzioni dello psicoterapeuta è funzionare da “specchio limpido” per il paziente, in modo che questi possa cogliere degli aspetti di sé di cui non è normalmente consapevole. Rispecchiando il paziente lo psicoterapeuta cerca di aiutarlo a divenire maggiormente consapevole dei propri sentimenti, dei propri meccanismi inconsapevoli e delle proprie responsabilità. Nel fare questo può dover sottolineare anche le responsabilità delle persone vicine al paziente, ma sempre con lo scopo di permettere al paziente di cogliere a propria volta le proprie responsabilità. E’ invece dannoso far passare il paziente da vittima attribuendo completamente agli altri la responsabilità delle sue sofferenze. In ogni caso non è utile per la sua evoluzione.

Esempio: lo psicoterapeuta attribuisce le “colpe” del fallimento matrimoniale interamente al partner del paziente.

Esempio: lo psicoterapeuta sostiene la visione vittimistica che il paziente ha di se stesso sottolineando solo le mancanze dei genitori senza dare rilievo alle risorse e alle potenzialità della persona.

Lo psicoterapeuta parla eccessivamente (di sé) senza che ciò abbia uno scopo terapeutico.
Talvolta lo psicoterapeuta rende note al paziente alcune informazioni su di sé. Dal momento che la situazione tipica di una terapia prevede che l’attenzione sia focalizzata sul paziente e i suoi bisogni, quando il terapeuta parla di sé lo deve fare unicamente se ciò aiuta il paziente a raggiungere i propri obiettivi. “L’apertura di sé” è una tecnica terapeutica ben precisa di cui non si deve abusare. Lo psicoterapeuta può essere amichevole ma non è un amico!

Esempio: lo psicoterapeuta parla delle proprie relazioni affettive senza che ciò sia pertinente con la terapia.

Esempio: lo psicoterapeuta parla troppo spesso occupando quasi tutto il tempo della terapia e lasciando poco spazio al paziente per esprimersi.

Lo psicoterapeuta non parla per niente.

Esempio: il paziente parla per tutta la seduta e lo psicoterapeuta non gli fornisce alcun feed-back.
Lo psicoterapeuta non ha effettuato una terapia personale.

Un terapeuta non ha solo bisogno di conoscere determinate teorie sull’uomo e determinate tecniche di intervento psicoterapeutico. Ha bisogno anche di saper mantenere il proprio equilibrio interiore e la propria lucidità allorché il paziente lo attacca personalmente, oppure porta dei contenuti molto drammatici in terapia, oppure quando lo psicoterapeuta ha dei problemi personali (lutti, incidenti, etc.) o è molto stanco. A questo scopo è, per me, essenziale che abbia compiuto un buon lavoro di psicoterapia su di sé.

Esempio: lo psicoterapeuta svela al paziente di non aver completato un percorso di psicoterapia personale.

Lo psicoterapeuta non ricorda importanti informazioni del paziente.

A tutti capita di avere delle dimenticanze, ma se uno psicoterapeuta stabilmente non ricorda dei fatti importanti narrati durante le sedute dal paziente, forse vuol dire che ha troppi pazienti.
Esempio: lo psicoterapeuta non ricorda il nome del paziente.

Lo psicoterapeuta non presta attenzione al paziente.

L’attenzione dello psicoterapeuta nei confronti del paziente è la prima e fondamentale condizione di una psicoterapia.

Esempio: lo psicoterapeuta controlla frequentemente il proprio cellulare durante la seduta.
Esempio: lo psicoterapeuta risponde al telefono durante la seduta.

Esempio: lo psicoterapeuta regolarmente si distrae e mostra di non capire cosa ha detto il paziente.

Che fare se si scorgono uno o più segni di “cattiva psicoterapia”

Prima di abbandonare la terapia occorre porsi la questione se la sensazione di sgradevolezza che si sta vivendo in terapia non abbia a che fare con i propri meccanismi problematici ossia, come dicevo, sia una questione di ”transfert”.

A questo scopo, è utile affrontare le proprie preoccupazioni direttamente con il proprio terapeuta.

Vi è inoltre la possibilità che lo psicoterapeuta abbia fatto un errore. In questo caso è opportuno parlarne con lo psicoterapeuta: talvolta un errore può essere riparato se la persona che lo ha commesso (in questo caso il terapeuta) è capace di assumersene la responsabilità e di rassicurare l’altro sul fatto che tale errore non verrà nuovamente commesso.

Uno psicoterapeuta di solito è formato per accogliere i timori e i dubbi del paziente circa il percorso terapeutico e sarà disposto ad affrontare l’argomento ascoltando il punto di vista del paziente e fornendo risposte ragionevoli e convincenti.

Se ciò non dovesse essere il caso, se lo psicoterapeuta non fosse disponibile ad affrontare le preoccupazioni del paziente circa la bontà della terapia, potrebbe essere utile incontrare un altro psicoterapeuta per chiedere un secondo parere.

Se dopo aver parlato col proprio psicoterapeuta, o aver ricevuto un secondo parere, diviene chiaro che si è di fronte ad un caso di “cattiva psicoterapia” è opportuno chiudere il percorso terapeutico e mettersi alla ricerca dello psicoterapeuta giusto per sé.

Il mio consiglio è di parlare chiaro col proprio psicoterapeuta e dirgli chiaramente che non si vuole continuare la terapia con lui e i motivi per cui si è presi una simile decisione. Nel fare questo è opportuno ricordare che lo psicoterapeuta è un professionista che ha seguito, si spera, un percorso di psicoterapia personale e che, in ogni caso, è stato addestrato a gestire i propri sentimenti negativi auto-sostenendosi nel caso si senta toccato dalle parole del paziente. Non si deve quindi temere di ferire lo psicoterapeuta, anzi esprimersi in modo autentico spesso rappresenterà un occasione di crescita sia per il paziente sia per lo specialista.

Codice Deontologico (C.D.) degli Psicologi italiani

Il Codice Deontologico è quel testo che raccoglie le regole comportamentali che gli psicologi stessi si sono date. Queste regole sono state pensate con lo scopo di salvaguardare la dignità e la salute delle persone che sono trattate dagli psicologi.

Gli psicologi, se vogliono appartenere a questa categoria professionale, si impegnano a seguire tali regole, pena provvedimenti di diversa intensità, che vanno dall’ammonizione, alla sospensione, fino alla radiazione dall’albo professionale, caso in cui lo psicologo non potrà più esercitare la professione.
Le regole del Codice Deontologico degli Psicologi vincolano anche la maggioranza degli Psicoterapeuti poiché in Italia la maggioranza degli psicoterapeuti è di formazione psicologica.

Cito alcune regole del C.D. che lo psicologo deve seguire:

  • “evitare l’uso non appropriato della propria influenza, ossia evitare tutti i casi in cui la propria influenza non sia finalizzata a promuovere il “benessere psicologico dell’individuo”;

  • “lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all’autodeterminazione ed all’autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni”;

  • “obbligo di formazione continua..”;

  • “mantenere il segreto professionale”;

  • “commistioni tra vita professionale e vita privata dello psicologo”.

Da queste e altre regole del Codice Deontologico, possiamo dedurre alcuni segni di “cattiva psicoterapia”:

Lo psicoterapeuta usa la propria influenza per modificare le convinzioni politiche del paziente.
Lo psicoterapeuta cerca di modificare il credo religioso del paziente.

Il paziente è mantenuto in una situazione di dipendenza: il percorso terapeutico non volge verso il raggiungimento di un obiettivo condiviso, ma procede “ad oltranza” senza una direzione condivisa. Lo psicoterapeuta soddisfa i bisogni emotivi e affettivi del paziente lodandolo e sostenendolo, ma non lo aiuta a sviluppare le capacità per soddisfare tali bisogni autonomamente al di fuori della terapia.

Lo psicoterapeuta cerca di imporre i propri valori sul paziente.

Lo psicoterapeuta non rispetta la privacy del paziente divulgando ad altri che ha in trattamento una determinata persona senza che ciò abbia una funzione terapeutica; (diverso è il caso in cui lo psicoterapeuta condivide alcune informazioni con dei colleghi al fine di ottimizzare il proprio intervento, e comunque sempre mantenendo, per quanto possibile, l’anonimato della persona).

Lo psicoterapeuta opera delle discriminazioni in base alla religione, all’etnia, alla nazionalità, all’estrazione sociale, allo stato socio-economico, al sesso, all’orientamento sessuale, o alla condizione di disabilità del paziente.

Lo psicoterapeuta non è preparato e aggiornato professionalmente.

Lo psicoterapeuta non deve mischiare vita professionale e vita privata se ciò può interferire con l’attività professionale per es. effettuando un percorso di psicoterapia con il proprio dentista, o incontrando il paziente in contesti diversi dalla psicoterapia, come ad esempio al teatro o al cinema.

Lo psicoterapeuta non deve “effettuare interventi di psicoterapia con persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale”, né effettuando un percorso di psicoterapia con una persona con cui è legato da una profonda amicizia o da un legame sentimentale, quantomeno instaurando un rapporto sentimentale nel corso della psicoterapia.

Perché dovremmo andare tutti dallo psicologo?

Perché dovremmo andare tutti dallo psicologo?

La psicoterapia è un ottimo strumento per affrontare i nostri problemi da un altro punto di vista. Gli amici possono darci consigli, ma spesso non corrispondono esattamente a quello di cui abbiamo bisogno. È allora che entra in scena lo psicologo.

La società sta finalmente iniziando a capire che la psicoterapia non è una “cosa da pazzi”, bensì che un numero sempre maggiore di persone cerca in essa un contributo che non sono capaci di trovare altrove.

Per chiedere aiuto ad uno psicologo, non è necessario essere “pazzo” o “fuori di testa”. Al giorno d’oggi è molto comune andare in terapia persino per migliorare e conoscersi meglio. La psicoterapia per molti è divenuta uno spazio nel quale esplorare le proprie luci e le proprie ombre ed imparare da esse. Non si tratta di ricevere consigli da qualcuno che non ci conosce, bensì di imparare a vedere i nostri problemi da un’altra prospettiva.

Idee errate sulla psicoterapia

Molte persone continuano a pensare che dallo psicologo ci si debba sdraiare su un divano in cerca di traumi infantili che possano spiegare i sentimenti attuali. Altre pensano che il terapeuta sia una persona che risolverà i conflitti del paziente o del cliente senza che questi debba fare alcuno sforzo. Vi sono anche persone che pensano tutto il contrario, ovvero che lo psicologo sia un agente passivo della terapia che si limita ad ascoltare.

Tutte queste sono idee errate su come si svolge al giorno d’oggi una seduta di psicoterapia. L’immagine del divano appartiene al mondo della psicoanalisi, ma attualmente non tutti gli psicoanalisti ne hanno uno. In questo senso potremmo dire che, soprattutto in Europa, l’evoluzione della psicologia ha bandito i divani rendendoli un’eccezione e non la regola.

Gli psicologi non danno risposte, aiutano a trovarle, alcuni porranno persino domande a cui non avevamo mai pensato e che possono essere rilevanti per il problema.

Perché fa bene andare dallo psicologo?

La psicoterapia non è riservata solo alle persone affette da patologie mentali. È un’ottima risorsa per tutti, perché nessuno è invincibile e a volte abbiamo bisogno di punti di vista esterni che arricchiscano il nostro. Non siamo nemmeno perfetti, dunque è facile commettere errori che dovremmo analizzare per evitare di ripeterli.

“Spesso si dice che questa o quella persona non ha ancora trovato il vero Io. Ma il vero Io non è qualcosa che si trova. È qualcosa che si crea.” -Thomas Szasz-

Andare dallo psicologo è necessario per molte persone. Per altre, non è obbligatorio, certo, ma di sicuro gioverà alla loro salute mentale ed emotiva. La vita ci presenta situazioni, traumi e momenti difficili che non siamo costretti a saper gestire da soli. In questo senso, la psicoterapia si offre come risorsa per aiutarci.

Motivi per i quali la psicoterapia può aiutarci

È interessante analizzare i diversi motivi per i quali la psicoterapia è una buona risorsa per qualsiasi persona in determinati momenti della sua vita, che non devono per forza implicare tristezza o ansia. Iniziamo!

  • Allevia la sofferenza offrendo nuovi occhiali con cui guardare il mondo.

La psicoterapia ci insegna strategie per ridurre il nostro malessere e la nostra angoscia. Per di più, non ne allevia solo i sintomi, ma aiuta a comprendere come siano arrivati nella nostra vita e perché persistono. Ad esempio, non ci aiuterà solo a ridurre l’ansia che proviamo, ma anche a capire perché è giunta in un determinato momento della nostra vita, in modo da osservare quello che ci succede da un altro punto di vista.

  • Protegge la salute emotiva per comprendere meglio le nostre emozioni.

Il processo psicoterapeutico è una buona risorsa per migliorare la nostra intelligenza emotiva. Approfondisce le nostra paure ed emozioni represse per portarle alla luce e iniziare ad esprimerle. In questo modo, non rappresenteranno più un problema.

Ad esempio, se avete paura di rimanere soli, può essere utile condividere questa paura per poterla gestire in un altro modo con l’aiuto dello psicologo.

  • Invita ad uscire dalla zona di comfort.

Quello che conosciamo già non sempre rappresenta il meglio per noi. È per questo motivo che una buona psicoterapia può aiutare ad esplorare le zone sconosciute e a maneggiare l’incertezza con più calma. Ad esempio, immaginate di soffrire perché non avete amici, ma non fate nulla per rimediare a questa situazione. Imparare ad aprirvi e ad esprimervi con lo psicologo vi sarà molto utile per realizzare, in seguito, nuove attività che vi permetteranno di conoscere gente nuova.

  • Aiuta a prendere le distanze dai problemi e a vederli da una prospettiva migliore.

Quando siamo immersi nei nostri problemi, molte volte è difficile trovare una soluzione. In questo senso, lo psicologo può aiutarci ad ampliare il nostro ventaglio di opzioni e anche a capire perché alcune idee, pur essendo valide secondo un ragionamento logico, suscitano in noi un rifiuto.

Ad esempio, se avete un problema con un parente, mettersi nei suoi panni durante la sessione di psicoterapia grazie a un role-play, vi permetterà di capire meglio il conflitto.

  • Ci permette di conoscere meglio i nostri diversi aspetti.

Non ci conosciamo mai del tutto, vi sono sempre aspetti di noi stessi da esplorare e comprendere. A volte rifiutiamo, consapevolmente, alcuni nostri modi di essere e agire.

Ad esempio, durante la seduta, possiamo capire quali aspetti di noi non accettiamo e iniziare a riconciliarci con essi.

  • Schiarisce la mente e ci permette di vedere le cose importanti della vita.

Spesso ci lasciamo offuscare così tanto da quello che non va per il verso giusto da dimenticare di dare valore alle cose davvero importanti, di godere del nostro presente, dei nostri affetti e delle persone a noi care. Ad esempio, possiamo immergerci così tanto nel lavoro da trascurare il nostro rapporto di coppia. La psicoterapia ci aiuta a relativizzare i problemi e a valorizzare gli elementi davvero importanti.

  • Favorisce l’autoconoscenza e l’atteggiamento compassionevole.

Addentrarsi in un processo di autoconoscenza ci permette di prendere coscienza di molti pensieri, emozioni e atteggiamenti che ignoravamo. A volte, ad esempio, ci trattiamo male senza rendercene conto; la psicoterapia ci aiuta a fomentare l’autocompassione, la pazienza e ad essere più comprensivi con noi stessi.

  • Rafforzare la propria salute mentale per prevenire possibili crolli emotivi.

La psicoterapia è un’ottima risorsa per rafforzare l’autostima e recuperare la sintonia con la nostra anima che spesso perdiamo nella voragine dello stress giornaliero. D’altro canto, a nostra disposizione abbiamo già numerosi strumenti per affrontare il problema, la psicoterapia ci aiuterà solo ad esserne consapevoli e a scegliere il più adatto in ogni momento.

Ricordate che scegliamo noi il nostro destino e, sempre noi, impugniamo il timone con cui dirigere la nave. Possiamo imparare a tenerla a galla oppure a navigare mentre gioiamo del processo. Non abbiate timore di chiedere aiuto, non vi renderà più deboli, tutto il contrario.

Non è mai tardi per scoprire i benefici della psicoterapia e iniziare a godere delle nostre giornate senza tanta oppressione né mal di testa. La psicoterapia è indicata a tutti, perché siamo umani, passiamo tutti periodi difficili e non sempre sappiamo risolverli da soli. Condividere il nostro malessere e trarre beneficio da un trattamento psicologico può essere una grande decisione, a lungo andare la nostra salute mentale ci ringrazierà.

Andare dallo Psicologo

  Psicologo

Oggi giorno andare dallo psicologo non è più percepito negativamente come una volta. In passato il termine “strizzacervelli” e l’idea che “dallo psicologo ci vanno i matti” erano dovuti all’erroneo accostamento con la vecchia psichiatria.

Andare dallo psicologo non vuol dire essere “diversi” o “matti”.

Andare dallo psicologo significa prendersi cura della propria salute psicologica, così come ci occupiamo di quella fisica, migliorando il nostro benessere psicologico e sociale.

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Lo psicologo è un professionista che si occupa di prevenzione, diagnosi, attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno; si rivolge alle persone, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità.

Si può rivolgere allo psicologo chiunque avverta la necessità di una consulenza specialistica per favorire una crescita interiore personale, per una crisi temporanea, per delle esigenze di orientamento, per raggiungere una migliore consapevolezza di sé, degli altri e del proprio contesto familiare, sociale, lavorativo o scolastico.

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Alcuni esempi, tra i tanti possibili, per richiedere una consulenza:

· l’individuo, la coppia o la famiglia che deve affrontare cambiamenti legati al ciclo di vita;

· il genitore che desidera migliorare la relazione con i figli;

· le scuole e le aziende per migliorare le dinamiche relazionali o per affrontare problematiche organizzative;

· lo sportivo per gestire lo stress o incrementare la motivazione.

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Una consulenza psicologica facilita la comprensione del problema, aiuta ad individuare le risorse giuste e a trovare soluzioni adatte.

Rivolgersi ad uno psicologo sin dai primi segnali di disagio è essenziale per prevenire l’aggravamento di una situazione.

E’ importante rivolgersi ad un professionista perché la nostra salute, così come sancisce la definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, “non è soltanto assenza di malattia o di infermità ma uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale” che dobbiamo imparare a tutelare.

Che cos’è la Psicoterapia ?

DEFINIZIONE DI PSICOTERAPIA TRATTA DA G. JERVIS

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Definizione proposta da Giovanni Jervis (1975).

La psicoterapia è qualsiasi forma di aiuto e di cura attraverso il rapporto interpersonale. In senso generale, è psicoterapia quanto di utile può derivare al soggetto, per la soluzione dei propri problemi e la scomparsa dei propri disturbi, dall’incontro con un’altra persona o con persone, e dallo scambio diretto di parole e di messaggi non verbali. In modo più preciso e limitato, si può parlare di psicoterapia quando un aiuto del genere venga dato in modo intenzionale da parte di una o più persone che abbiano la capacità di farlo.”

La psicoterapia è una forma di aiuto che utilizza metodi psicologici: la parola, la relazione, l’ascolto professionale, le diverse tecniche psicoterapeutiche. Consiste nella decisione di prendersi cura di se stessi attraverso l’aiuto di un esperto in problematiche psicologiche che assiste e sostiene tale decisione.
In questo senso, l’incontro con la psicoterapeuta rappresenta la possibilità per l’individuo di attingere a risorse personali che il proprio contesto sociale, per motivi diversi, non riesce a mobilitare. La psicoterapeuta diventa allora un mediatore esterno che sostiene il “progetto di vita e di cura” della persona che a lei si rivolge.

OBIETTIVO DELLA PSICOTERAPIA

Seguendo il modello psicodinamico – relazionale possiamo dire che l’obiettivo di una psicoterapia è il miglioramento della qualità delle proprie relazioni.

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Nella pratica clinica attuale è più facile che una persona richiesta una psicoterapia lamentandosi per la qualità delle sue relazioni piuttosto che per una precisa sintomatologia. Il modello da me utilizzato trae origine dalla psicoanalisi classica ma integra al suo interno concetti ed aspetti appartenenti a diverse teorie e modelli psicologici, e pone l’accento sugli aspetti interpersonali e relazionali dell’individuo piuttosto che esclusivamente sulle pulsioni.

ELEMENTI COMUNI DI UNA PSICOTERAPIA

Al di là delle tecniche specifiche utilizzate da terapisti di diversa formazione, possiamo isolare alcuni elementi comuni presenti in ogni forma di terapia, essi sono:

  1. La richiesta di intervento;

  2. La sintomatologia;

  3. Il rapporto interpersonale.

Il primo aspetto riguarda la possibilità che una persona riconosca un problema o una difficoltà e decida di chiedere aiuto.

Il secondo aspetto, la sintomatologia, può essere costituita da elementi molto ben delineati oppure da situazioni generalizzate. Possiamo osservare che su di essa si punta l’attenzione del paziente in quanto costituisce una sorta di limitazione alla sua vita.

Il terzo aspetto è costituito dal fatto che una psicoterapia si svolge sempre sulla base di una relazione umana. Il processo di ristruttutazione terapeutica in una persona che avverte un forte disagio, avviene utilizzando proprio il rapporto che si stabilisce con il terapeuta.

PERCHÈ INTRAPRENDERE UN PSICOTERAPIA?

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L’obiettivo primario di un percorso di terapia è quello di raggiungere un cambiamento.
Tale cambiamento si concretizza nel raggiungimento di uno stato maggiore di benessere personale, non inteso necessariamente come risoluzione totale e definitiva dei problemi presentati all’inizio, ma come acquisizione e attivazione di risorse, di strumenti necessari per affrontare problematiche passate, presenti o future.

Non si tratta di una trasformazione superficiale, limitata al semplice apprendimento di nuove informazioni o di nuove “tecniche”, ma di una trasformazione sostanziale, a livello sia del pensiero che dell’azione.

L’obiettivo di ogni percorso terapeutico è quello di rendere il paziente in grado di attuare una profonda riflessione su di sè, attraverso la rinnovata capacità di mettersi in discussione al fine di raggiungere una più completa e complessa consapevolezza di sè.

E’ proprio attraverso la relazione terapeutica che si arriva ad essere in grado di interrogarsi e mettersi in gioco in modo nuovo.

Attraverso l’esperienza di fiducia che si viene a creare con il proprio terapeuta, il paziente arriva a costruirsi un’esperienza di relazione e con essa una diversa modalità di rapportarsi agli altri, favorendo il senso di autonomia e l’attivazione di nuove risorse anche in altri contesti ed in diverse situazioni.

Infine, un altro importante cambiamento che si può ottenere dal percorso terapeutico è quello di cambiare atteggiamento nei confronti del concetto di verità: non si è più alla ricerca di certezze assolute, che durino nel tempo, ma si impara ad interrogarsi, a dubitare e a vivere nel dubbio, mettendosi in discussione, accettando i diversi punti di vista, considerando tutto ciò come una risorsa, un’occasione di crescita personale e non più un limite.

Si fa propria una visione positiva della vita e l’idea che esistano diversi modi di vedere il mondo “reale”, secondo una logica in cui è ammessa l’esistenza di diversi mondi possibili.

Piacere per forza rende finti

Chi si preoccupa sempre di piacere agli altri teme di venire abbandonato: atteggiamento controproducente

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Fanno tutto quello che gli si chiede, dicono quello che si spera che dicano, sono sempre d’accordo con chi hanno di fronte e, in ogni caso, mai apertamente in disaccordo. Sembra che a loro vada bene tutto, che possano sopportare ogni cosa e che addirittura gli piaccia farlo. Sono arrabbiati? Sorridono. Sono delusi? Si mostrano soddisfatti. Sono occupatissimi? Si rendono disponibili a ogni richiesta. Sono i “compiacenti”, cioè persone che vivono dominate dalla paura di scontentare chiunque abbiano davanti. E che, con questo modo di fare, portano le relazioni – amicali, sentimentali e lavorative – verso un inevitabile fallimento. Un fallimento di cui non si spiegano le ragioni e che fanno una gran fatica ad accettare, perché convinte che la strategia del “non deludere” sia la migliore per far andare bene le cose. Siamo in molti – quasi tutti a dire il vero – a desiderare di piacere agli altri, al punto da rischiare a volte di snaturare ciò che siamo.

Paura dell’abbandono

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Chi più chi meno, tutti abbiamo imparato fin da piccoli che all’occorrenza si può indossare la maschera di “colui che non delude” per avere dei vantaggi. Chi non riesce mai a togliersela però ha una tale paura di deludere e di venire abbandonato che tutta la sua vita viene condizionata. Forse il comportamento dei genitori, e poi le prime esperienze di incontro con il mondo esterno, lo hanno convinto che, se non si contraddicono gli altri, si viene accettati o, quantomeno, non si viene puniti: si ottiene la loro clemenza. Fin da quando era piccolo, quindi, egli cerca di affermarsi nella realtà tentando di “tenere buono” l’interlocutore, temendo le sue reazioni: potrebbe non amarlo più, non accettarlo, non volerlo, ma anche “distruggerlo” con brutte parole e musi lunghi.

Una strategia fallimentare

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Chi vive così sacrifica la qualità della propria vita in cambio della sopravvivenza emotiva. Eppure può fare qualcosa di concreto per uscire da questa penosa situazione. In fondo si tratta di togliere una maschera che, a ben vedere, non ha mai dato risultati positivi. I partner, dopo averlo sfruttato ben bene, lo hanno accusato di falsità, di doppiogiochismo e – cosa paradossale, in apparenza, per chi si è adattato così tanto – di egoismo; gli amici gli si sono rivoltati contro o si sono sentiti raggirati; i colleghi lo vessano dopo averlo spremuto come un limone. Invece di parlare di ingratitudine degli altri occorre focalizzarsi sul fatto che, alla fine, tutti scoprono, o comunque percepiscono, la sua finzione. E non gliela perdonano. Quando oggi sente dire: “Potevi dirlo che non eri d’accordo!”, ebbene è vero: poteva dirlo. O, meglio: doveva.

Avrebbe dovuto affermare se stesso e sopportare la probabile reazione negativa dell’altro, visto che, alla fine, essa è comunque arrivata, ed è ben peggiore di quella che poteva essere all’inizio.

La finzione della bontà

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Chi fa di tutto per compiacere gli altri è convinto di essere una persona buona, molto buona, visto che si adatta ai loro bisogni e ciò gli fa pensare che, con tutta questa bontà, gli altri avranno pietà di lui e riconosceranno il suo “grande cuore”. Ma, a parte il fatto che gli altri non sanno niente dei sacrifici che ha fatto, egli, in realtà, non ha mai avuto il coraggio di immettere nelle relazioni la propria verità, le proprie vere idee, i propri desideri ed esigenze. E quindi non ha mai dato loro delle reali chance di riuscita. È su questo punto che occorre riflettere con molta attenzione. Se per motivi legati alla propria storia personale non si fornisce all’altro una conoscenza reale di sé, tutto sarà inquinato fin dall’inizio e ciò che si temeva – il “disastro” e l’abbandono – si realizzerà puntualmente. Se invece ci si farà conoscere per come si è, quel che accadrà sarà davvero quel che deve accadere. E la vita, per quanto impegnativa, potrà essere reale e appagante.

Smetti di adattarti alle scarpe strette o le dovrai portare sempre.

Riconosci le tue esigenze

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Più lo compiaci, più l’altro si abitua a vederti così: disponibile, malleabile e senza idee ed esigenze particolari. E gli va benissimo, quindi non accetterà cambiamenti. È a te però che non va bene. Perciò impegnati, fin dall’inizio di un rapporto, a dire ciò che pensi e a esprimere ciò di cui hai voglia o bisogno. Non accadrà niente di terribile.

Conosci meglio te stesso

A volte, a forza di adattarsi alle esigenze degli altri, si finisce per non sapere più quali sono le proprie. Orientati di più su di te, sulla tua interiorità. Dai più ascolto alle tue emozioni, ai tuoi pensieri. Essere più in contatto con essi ti aiuterà ad avere la risposta pronta per esprimerti al momento opportuno.

Inutile rinfacciare

Se ti adatti a tutto, anche senza che ti venga richiesto, lanci il messaggio che per te non c’è problema. Perciò è assurdo poi, quando ti senti disconosciuto, fare un elenco dei sacrifici fatti e degli sforzi profusi. Ciò farà apparire la tua bontà come interessata e, quindi, manipolatoria. Piuttosto seleziona meglio a cosa adattarti e a che cosa no, così da non sentirti in credito con tutti.

Facilitare il cambiamento: 10 strategie

1 strategia – Questioni di consapevolezza: il cambiamento è una costante della vita

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La prima cosa da conoscere e da considerare è che il cambiamento è una costante della vita. Fa parte del DNA di ogni uomo e della storia del mondo. Pensiamo alle cellule del nostro corpo, che nascono e muoiono ciclicamente per permetterci di sopravvivere; ai nostri bisogni e obiettivi, che si modificano in continuazione lungo le diverse fasi del ciclo di vita, dall’infanzia, all’adolescenza, all’età adulta, alla vecchiaia; all’alternarsi delle stagioni, del giorno e della notte, ai prodotti della terra prima acerbi poi maturi; alle rivoluzioni e alle grandi scoperte e invenzioni, che hanno punteggiato la storia e hanno permesso all’uomo di evolversi, aprirsi nuovi orizzonti, aumentare il benessere e la qualità della vita. Tutto intorno e dentro di noi muta e si evolve, inesorabilmente.

2 strategia – Sviluppa la flessibilità: “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”

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Se il cambiamento è presenza costante della vita, occorre acquisire confidenza e imparare ad adattarvisi, visto che esso si verificherà comunque. Alcune volte il cambiamento sarà imposto e nulla potremo fare per resistervi: in questi casi dovremo essere capaci di cavalcarlo e restare flessibili e morbidi. In altri casi, invece, dovremo essere noi per primi a prendere l’iniziativa e a «fare accadere» il cambiamento o almeno a metterci nella posizione per favorirlo, perché è solo abitando situazioni differenti che possiamo aprire porte su nuovi orizzonti di crescita. Insomma, chi sa come cambiare e quando adattarsi al cambiamento ha numerosi vantaggi che non possiede chi fatica ad adeguarsi alle situazioni che la vita ci obbliga ad affrontare. In questo senso, può essere utile tenere a mente le parole di Lao Tse, filosofo cinese del V secolo; “l’acqua vince su tutto perché si adatta a tutto”.

3 strategia – Esci dalla zona di comfort… e prova a cambiare

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C’è da dire che molte persone sono terribilmente spaventate dal cambiamento. La maggior parte di noi infatti ha la tendenza a rimanere entro i confini della cosiddetta “zona di comfort”, ossia tutte quelle routine e quei meccanismi conosciuti e ormai familiari su cui esercitiamo un controllo. Tutto ciò che è al di fuori di questa zona, e che dunque implica la messa in discussione di abitudine consolidate, viene avvertito come pericoloso perché ignoto, forse rischioso o forse no, ma comunque ancora tutto da sperimentare. Eppure, per evolvere, realizzare i nostri bisogni più autentici e creare valore in quello che facciamo occorre proprio accettare di uscire dalla nostra zona di comfort. Ciò può essere fatto a cominciare dalle piccole cose, inserendo piccole deviazioni nelle nostre routine: cambiando il percorso mentre andiamo al lavoro o assaggiando nuovi cibi rispetto a quelli che mangiamo abitualmente. Un altro fatto importante è che quando avviene un cambiamento nella nostra vita, ci affrettiamo a etichettare la nuova situazione come ‘buona’ o ‘cattiva’, ‘una fortuna’ o ‘una sfortuna’. Ad esempio, potremmo giudicare un cambiamento sul lavoro – come l’arrivo di un nuovo superiore al posto di quello precedente – come qualcosa di negativo, timorosi delle modifiche che ciò potrà portare alla nostra condizione. Così facendo, anticipiamo negativamente gli eventi e sperimentiamo emozioni di ansia e apprensione quando, a ben vedere, non è possibile conoscere a priori le conseguenze di un cambiamento. Anzi, quante volte abbiamo giudicato come catastrofico qualcosa che poi si è rivelato un’occasione di crescita?

4 strategia – Per cambiare gli altri, cambia te stesso

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Lungo la strada che porta al cambiamento, possiamo imbatterci in “alibi”, cioè scuse che inventiamo per rimanere ancorati alle nostre abitudini, magari scomode e disfunzionali, ma rassicuranti perché conosciute. Tra i vari alibi, il più frequente è sicuramente quello secondo cui sono gli altri a doversi modificare al nostro posto. Ad esempio, in una coppia che litiga spesso per lo stesso motivo, poniamo la gestione della casa, uno dei due potrebbe continuare a lamentarsi dell’atteggiamento del partner, aspettandosi che sia l’altro a modificarsi. A ben vedere, però, il modo più veloce ed efficace per modificare i comportamenti degli altri è lavorare su se stessi; questo perché in ogni sistema, se si modifica un elemento interno, anche gli altri ne vengono influenzati in quanto irrimediabilmente interconnessi. Ecco perché, nell’esempio precedente, è fondamentale non intestardirsi per modificare chi ci è vicino, ma provare noi per primi a modificare alcuni nostri atteggiamenti e vedere cosa succede.

5 strategia – Come cambiare.. in 5 minuti

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Quanto è ripida la strada verso il cambiamento? Quando cerchiamo di percorrerla, ci pare sempre lunga e difficile, e questo può condurci ad inventare scuse e giustificazioni per procrastinare il da farsi. Ad esempio, se il cambiamento che vogliamo generare riguarda il pulire a fondo la casa, possiamo farci scoraggiare dalla mole di lavoro che ci aspetta: lavare i piatti, mettere in ordine la scrivania, pulire il bagno e tutte le altre stanze. Sembra tutto così lungo e difficoltoso che possiamo rischiare di abbandonare l’intento. Cosa fare allora in questi casi? Inizio con svelarti una cosa, e cioè che, all’interno dei processi di cambiamento, la cosa più difficile è compiere il primo passo. Dunque ti segnalo una strategia chiamata “minimizzare il cambiamento”. In cosa consiste? Nell’esempio della pulizia della casa, posso pensare di impostare un timer da cucina e di darmi da fare per la durata di 5 minuti, al termine dei quali potrò anche smettere. Ora è più semplice alzarsi e compiere il primo passo! Se inizio a pulire la scrivania, mi rendo conto che non è poi così traumatico: ritrovo vecchi documenti dimenticati, lo spazio è pulito e ordinato e questo mi gratifica. Quando suonerà la sveglia sarò più facilitato a continuare a pulire anche il resto della casa, ma, se dovesse andare male e decidessi di fermarmi con le pulizie, al peggio avrò la scrivania in ordine!

6 strategia – La paura di fallire come freno del cambiamento: sbaglia in fretta

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Uno dei freni del cambiamento è sicuramente la paura di commettere errori. Viviamo infatti in una società dove l’errore viene percepito come qualcosa di cui vergognarsi, un segno di inadeguatezza, fragilità e incompetenza. Negli Stati Uniti, invece, vige una mentalità molto diversa dalla nostra e non è un caso che uno dei modi di dire che si utilizza molto oltreoceano sia ‘fail fast’, ossia ‘sbaglia in fretta’: l’errore, a ben vedere, è il primo passo necessario per apprendere e imparare. Di più: l’errore è condizione essenziale per ogni grande successo. Dunque, se vuoi avere successo rapidamente, comincia subito a collezionare insuccessi.

7 strategia – La crisi come opportunità

crisi

Nella visione comune, la crisi sembra essere qualcosa di disastroso e inevitabile, davanti alla quale siamo destinati a soffrire inermi. Qualcosa, insomma, di molto negativo. In realtà, la parola rimanda etimologicamente al concetto di “scelta/valutazione/riflessione” e può dunque suggerire anche una sfumatura positiva, in quanto ci comunica che è necessario ripensarsi e reinventarsi perché così non è più sostenibile andare avanti. Essa, insomma, diviene presupposto necessario per un miglioramento e un progresso altrimenti impossibile. Pensiamo ad esempio alla “crisi di coppia”, che permette di rinegoziare delle regole tra i partner per trovare un nuovo accordo più funzionale. Allora la prossima volta che ti trovi davanti a una situazione di crisi, prova a chiederti: «A quali opportunità apre la porta questo periodo di cambiamento? Quali opportunità non riesco a vedere?».

8 strategia – Un obiettivo formulato correttamente promuove il cambiamento

Chemins de vie

Fondamentale per promuovere un cambiamento desiderato è avere in mente un obiettivo. Questo è abbastanza intuitivo. Tuttavia, ci sono alcune regole che occorre tenere presenti per formulare un obiettivo efficace. Ne ho selezionate 3 imprescindibili, vediamole con un esempio: ammettiamo di voler perdere qualche kg di troppo prima delle vacanze estive. Come formulare correttamente l’obiettivo?

1) l’obiettivo deve essere formulato in maniera precisa e deve essere misurabile. Per quanto riguarda la precisione, l’obiettivo ‘voglio fare una dieta’ non è ben formulato in quanto troppo vago: il nostro cervello ha bisogno di informazioni precise per poter mettere in moto quei meccanismi che ci portano a raggiungere un risultato. Meglio specificare: ‘Voglio arrivare a pesare xx (peso desiderato)’. Questo obiettivo è ben formulato anche perchè misurabile, cioè tale da permettere alla persona di capire in termini quantitativi se è stato raggiunto o quanto manca al suo raggiungimento.

2) l’obiettivo deve essere espresso in termini positivi. Questo punto è fondamentale. La formulazione ‘NON voglio più mangiare schifezze’ è altamente controproducente. Il nostro cervello, infatti, non riconosce le negazioni. Se dico ‘non devo pensare ad un elefante rosa’, quello che farò sarà attivare lo schema semantico ‘elefante’, poi processerò l’attributo ‘rosa’, dopodiché mi dovrò dire che non ci devo pensare. Insomma, per non pensarci, ho dovuto pensarci. In maniera analoga il pensiero ‘non mangiare schifezze’ equivale ad una attivazione continua del pensiero ‘mangiare’ e ‘schifezze’. Come prima, meglio dire ‘voglio mangiare sano’ oppure, ancora meglio, ‘voglio arrivare a pesare xx kg’

3) l’obiettivo deve essere sotto il controllo individuale, niente deve dipendere da fattori esterni che non è possibile controllare in prima persona. Obiettivi che implicano il cambiamento di altre persone sono destinati a fallire in quanto non è possibile controllare la volontà di un’altra persona ma solo la propria. Esulando dall’esempio del peso ed entrando in ambito lavorativo, l’obiettivo ‘voglio che il mio capo smetta di rispondermi male’ non e’ formulato efficacemente. E’ necessario in questo caso riformularlo concentrandosi sulla parte che è sotto la diretta responsabilità della persona, ad esempio ‘voglio imparare ad essere meno permaloso con il mio capo’.

9 strategia – Fissare una scadenza temporale accelera il processo di cambiamento

NUOVA VITA AAA

Un altro aspetto fondamentale per realizzare un obiettivo e promuovere così un cambiamento desiderato è darsi una scadenza temporale. A questo proposito, ci viene in aiuto la cosiddetta Legge di Parkison, descritta da Cyril Northcote Parkinson negli anni ’60, e secondo cui “il lavoro si espande fino ad occupare tutto il tempo disponibile; più è il tempo e più il lavoro sembra importante e impegnativo”. Ciò significa, in altre parole, che “più tempo si ha a disposizione, più se ne spreca”. Un esempio pratico? Vi è mai capitato di apprendere che la scadenza per un lavoro che avevate praticamente finito era stata posticipata, ma avete comunque lavorato fino alla sera precedente? La buona notizia è che la legge funziona anche al contrario: quando il tempo scarseggia, si lavora con maggiore efficacia e il processo di cambiamento subisce un’accelerazione spontanea. Quando ricevete incarico o fissate obiettivo, la strategia più funzionale consiste dunque nel porsi una scadenza che sia commisurata al carico del lavoro (niente scadenze impossibili!), ma sufficientemente limitata nel tempo.

10 strategia – Una modesta trasgressione fa bene alla psiche

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La maggior parte delle persone è spesso esageratamente spaventata dalla parola “trasgressione”. Tendiamo a percepire la trasgressione come qualcosa di rischioso, pericolosamente anti-convenzionale e irrispettoso. Al contrario, concedersi ogni tanto di “colorare fuori dai contorni” e agire saltuariamente in modi che abitualmente definiremmo “sconsiderati” può rivelarsi una buona cosa per la nostra psiche. Certamente le trasgressioni devono essere modeste, in linea con i nostri principi e non devono creare danni rilevanti: tingervi i capelli di un colore inusuale anche se qualcuno vi guarderà male, imbucarvi con nonchalance ad una festa privata o intrattenervi per strada a parlare con uno sconosciuto sono alcuni esempi di piccole trasgressioni salutari. Evadere temporaneamente dalla nostra routine può farci assaggiare un nuovo stile di vita, migliorare l’umore, donarci una sensazione di libertà, riattivare il nostro flusso creativo e produrre fantastici ricordi.

Estate e tempo libero: come goderne

In estate i ritmi di vita rallentano. E’ proprio durante la stagione estiva che i problemi psicologici possono esplodere.

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L’arrivo del caldo per alcuni coincide con l’interruzione delle occupazioni abituali, ripetitive (a volte noiose), ma che per queste loro caratteristiche hanno un effetto rassicurante. Quando d’estate, queste vengono a mancare, il loro vuoto può essere colmato dal riemergere di “fantasmi” alla base di manifestazioni di ansia e depressione.

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Il cambiamento dei ritmi di vita, una obbligata permanenza a casa, le partenze di amici e di familiari, la chiusura dei negozi di riferimento e i centri sociali obbligano la maggior parte degli anziani all’isolamento e solitudine. La casa può diventare un luogo di prigionia e nido per pensieri negativi che portano a disturbi di ansia e depressione.

Le vacanze vengono attese e desiderate perché si ha voglia di staccare la mente, di rilassarsi, di fare delle cose che da tempo non si ha avuto la possibilità realizzare.

Quando le ferie arrivano c’è chi le vive dedicandosi alle attività che preferisce: sport, lettura, viaggi, uscite fino a tarda notte, ozio. C’è invece chi riesce a rilassarsi per i primi due giorni e poi, ad un tratto si annoia o non riesce a godere del tempo libero, anzi non sa proprio come gestirlo. Qualcuno addirittura sta male, è insofferente, inizia ad agitarsi, a soffrire di insonnia, ansia e disturbi simili.

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La possibilità di dedicare più tempo a se stessi può essere un’arma a doppio taglio. Mentre nel periodo lavorativo si è troppo presi dalla routine quotidiana ed è molto facile “nascondere” ed evitare i problemi, durante le ferie, se non si è abbastanza impegnati le difficoltà possono venire a galla. Si può star male perché non si sa come impiegare il tempo libero. Durante l’anno spesso ci si concentra solo ed esclusivamente sul lavoro mettendolo al centro delle proprie giornate, e non si riesce a far nulla di piacevole.

Alcuni suggerimenti per evitare i disagi delle persone che passeranno il periodo estivo a casa:

  • Ogni mattina, quando vi alzate, preparatevi e vestitevi prendendovi cura di voi stessi;

  • Uscite la mattina presto o la sera quando il caldo non è opprimente;

  • Non abbandonate le consuetudini come comprare il giornale, bere un caffè fuori casa, fare delle passeggiate, anche se i vostri luoghi abituali sono chiusi;

  • Programmate il vostro tempo con occupazioni per voi gratificanti, che magari durante l’inverno non avete avuto la possibilità di svolgere;

  • Non poltrite passivamente di fronte al televisore;

  • Tenete i contatti con chi come voi è rimasto a casa ed organizzate degli incontri con loro;

  • Scoprite quali sono le attività di intrattenimento organizzate nel luogo in cui abitate. Queste potranno essere anche occasione per fare delle nuove conoscenze;

  • Tenete presente che tra qualche settimana tutto tornerà alla solita routine e forse rimpiangerete un po’ la tranquillità di questi giorni.

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Dedicare tempo a se stessi significa anche fermarsi a pensare e decidere cosa sia meglio per se. Bisognerebbe andare a recuperare i desideri di far qualcosa che non si è potuto fare e approfittare per farlo ora.

Si Potrebbero riprendere i contatti con persone che non si frequentano da un po’, fare un viaggio, dedicarsi a delle attività di gruppo. Insomma, inserirsi nuovamente in una rete sociale e gustarne tutti i piaceri che essa offre. Prendere l’abitudine di concedersi esperienze piacevoli, e concedersi degli spazi per se stessi.

Psicostrategie

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Immaginate di essere alla guida della vostra auto su una strada che non conoscete, ripida e piena di curve, immersa nella nebbia. Improvvisamente un veicolo sbuca dalla strada laterale a pochi metri da voi, troppo pochi perché riusciate a frenare in tempo. Il vostro piede è sul freno, premuto disperatamente al massimo, e l’auto inchioda, strisciando contro la fiancata dell’ altra vettura. Proprio prima che le lamiere si incastrino e i vetri esplodano andando in frantumi, vi rendete conto che l’altro veicolo è pieno di bambini… dev’essere il piccolo pullman che li porta all’asilo… Poi, nell’improvviso silenzio che segue la collisione, si leva un coro di pianti. Correte a vedere, e vi accorgete che uno dei bambini giace a terra immobile.

 

 

Siete travolti dal rimorso e dalla disperazione

Richard Wenzlaff, psicologo della Texas University, usò nei suoi esperimenti scenari laceranti come questo per sconvolgere i volontari che dovevano poi cercare di levarsi dalla mente la scena mentre, per nove minuti, scrivevano appunti sul proprio flusso di pensieri. Ogni volta che, mentre stavano scrivendo, la loro mente finiva sulle scenario poco prima descritto, facevano un segno sul foglio. Col tempo, la maggior parte dei volontari pensava sempre di meno alla scena: i soggetti più depressi, però, via via che il tempo passava, mostravano invece un accentuato aumento di pensieri molesti centrati sulla scena in questione, e arrivavano perfino a riferirsi ad essa in modo implicito in quegli stessi pensieri che avrebbero dovuto distrarli.

Ma non basta: i volontari inclini alla depressione cercavano di distrarsi ricorrendo ad altri pensieri tormentosi. Wenzlaff sosteneva che i pensieri venissero associati nella mente non solo in base al loro contenuto, ma a seconda dello stato d’animo. I soggetti depressi tendevano a creare reti di associazioni molto potenti fra questi pensieri che perciò, una volta evocato un certo stato d’animo negativo, erano più difficili da sopprimere. Paradossalmente, i pazienti depressi sembravano usare argomenti deprimenti per liberarsi la mente da un altro pensiero pure deprimente, il che non faceva che suscitare in loro emozioni sempre più negative.

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Liberarsi dei pensieri tristi

Per alcuni, farsi un bel pianto potrebbe essere un modo naturale per abbassare i livelli delle sostanze chimiche che innescano la sofferenza a livello celebrale. Sebbene il pianto possa a volte interrompere un attacco di tristezza, esso può anche lasciare l’individuo ossessionato sui motivi della disperazione. Le distrazioni spezzano la catena dei pensieri che perpetuano e alimentano la tristezza; una delle principali teorie per spiegare l’efficacia della terapia elettroconvulsiva nelle depressioni più gravi è che essa causa una perdita della memoria a breve termine; in altre parole i pazienti si sentono meglio perchè non riescono più a ricordare i motivi della loro tristezza.

Strategie più efficaci per tirarsi sù di morale

  • Distrarsi puzzle

Dianne Tice, psicologa dell’università di Princeton, constatò che molte persone riferivano di liberarsi da una leggera tristezza ricorrendo a distrazioni come la lettura, la televisione e il cinema, i videogiochi e i puzzle; altri ancora dormivano o sognavano ad occhi aperti, ad esempio programmando una vacanza immaginaria.

  • Muoversi  movimento autentico-l

La ginnastica aerobica è una della tattiche più efficaci per dissipare una leggera depressione, come pure altri stati d’animo negativi. L’attività fisica sembra essere efficace perchè modifica lo stato fisiologico causato dallo stato d’animo negativo: la depressione è caratterizzata da un basso grado di attivazione fisiologica e la ginnastica aerobica pone invece l’organismo in uno stato di forte attivazione.

  • Vincere facile vincere

Una tecnica molto costruttiva, secondo Dianne Tice, è quella di prepararsi un piccolo trionfo o un facile successo: affrontare un lavoro di casa a lungo rimandato o sbrigare qualche altra incombenza della quale si desidera liberarsi. Per lo stesso motivo, tutto quanto contribuisce a migliorare l’immagine di sé ha un effetto rasserenante, anche se si tratta solo di vestirsi bene e e di truccarsi.

  • Un altro punto di vista

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Uno degli antidoti più potenti contro la depressione- e al di fuori della terapia- tra quelli meno usati, è il cosiddetto reinquadramento cognitivo, ossia il cercare di considerare la situazione in modo diverso. E’ naturale essere tristi per la fine di una relazione e indugiare nell’autocommiserazione ma un buon antidoto contro la tristezza consiste nel fare un passo indietro e pensare a tutte le cose che non andavano del vostro rapporto. In altre parole, l’antidoto sta nel vedere la perdita in modo diverso, sotto una luce più positiva.

  • Prestare aiuto mondo

Un’ altra strategia efficace per sollevare il morale è quella di aiutare le altre persone in difficoltà. Poiché la depressione è alimentata da pensieri e preoccupazioni riferiti al sé, nel momento stesso in cui empatizziamo con altre persone sofferenti e le aiutiamo, ci sentiamo sollevati. La Tice rilevò che l’intraprendere un’attività di volontariato, qualsiasi essa sia, si rivelò uno dei migliori modi per modificare il proprio stato d’animo; era anche, però, uno dei più rari.